Le divisioni degli ultimi giorni hanno rovinato quella che doveva essere oggi la festa unitaria dei sindacati dell’università. Mai come in questo caso, infatti, le proteste sembravano mettere d’accordo tutti, contro i tagli obiettivamente ingiusti della legge 133. Invece qualcosa è andato storto. O, meglio, è andato dritto: il governo ha recepito le ragioni (buone) del mondo accademico, ha varato un decreto che ha corretto il tiro dei tagli, ha dato rassicurazioni ai sindacati, ritenute positive da Cisl, Ugl e Snals. E oggi in piazza la divisione delle sigle sindacali diventerà evidente.
Sono molti, d’altronde, a giudicare positive, anche se magari parziali, le decisioni prese negli ultimi giorni dal governo. È così anche per Andrea Ichino, docente di Economia politica all’Università di Bologna ed editorialista del Sole 24 Ore, il quale vede nelle recenti decisioni del ministro dell’Istruzione una «capacità di ascolto non comune».
Professor Ichino, proprio sul tema università, su cui tutti sembravano d’accordo nel criticare pesantemente l’azione del governo, si sono notati i cambiamenti più significativi. Come valuta questa situazione?
C’è il fatto positivo che il ministro ha dato ascolto a quello che l’opinione pubblica ha espresso nelle ultime settimane. Le proteste, a ben guardare, provenivano da diverse direzioni: da chi diceva che era tutto sbagliato, e da chi criticava alcuni provvedimenti piuttosto che altri. Ma quasi tutti esprimendo un giudizio molto critico verso l’azione del governo. Ora invece si vedono cose positive: i tagli soprattutto, che erano il punto più dolente, iniziano a configurarsi come tagli differenziati, che non colpiscano tutti indistintamente ma soprattutto chi ha agito male. Devo dunque dire che, sebbene io non mi riconosca in questo governo, il ministro ha effettivamente dimostrato una notevole capacità di ascolto.
Cosa ne pensa delle norme, contenute nel decreto, relative al diritto allo studio?
Mi pare che si tratti di un passo positivo. Però devo dire che prima di giudicare, questo come altri punti, dovremmo entrare nell’ottica che le cose vanno sperimentate. Bisogna cioè fare come i medici, che quando introducono una terapia la sperimentano, non solo per verificarne l’efficacia ma anche capirne il funzionamento migliore, regolando dosaggio dei medicinali e altro. Questa è una prospettiva che da noi manca totalmente. Ora, io ritengo che non abbia senso dare un giudizio generale sulla questione del diritto allo studio. È ovvio che se avessimo risorse infinte e potessimo pagare tutti, saremmo più contenti; ma naturalmente le risorse sono vincolate. È già un passo importante averle aumentate. Il vero problema ora è come spenderle bene, e per fare questo è necessario studiare bene i criteri e sperimentare come le cose possono funzionare al meglio.
Veniamo al punto che ha fatto più discutere: le novità, anche se temporanee, in materia di concorsi, soprattutto con l’introduzione del sorteggio per la costituzione delle commissioni. Qual è il suo giudizio?
È sicuramente una cosa positiva, nel contesto attuale, aver rotto – almeno potenzialmente – gli accordi perversi che esistevano tra le università per la composizione delle commissioni, introducendo il meccanismo del sorteggio. È invece un peccato che la cosa sia stata fatta all’ultimo e in modo un po’ abborracciato. Inoltre, dovendola fare, sarebbe allora stato meglio optare per una composizione totalmente casuale delle commissioni, senza il doppio meccanismo dell’elezione prima e poi del sorteggio. Ma questi sono comunque tutti palliativi per porre un rimedio temporaneo a una situazione sbagliata.
Cosa fare allora per modificare i meccanismi dei concorsi in una prospettiva a lungo termine, oltre le decisioni urgenti del decreto?
Innanzitutto bisogna spazzare via l’equivoco su cui si fonda il dibattito sui concorsi in Italia. Secondo me, infatti, non c’è assolutamente nulla di male nel fatto che un’università voglia assumere una persona ben precisa; e questo, d’altronde, accade in tutti i paesi del mondo. Il punto è che bisogna fare in modo che quell’università abbia gli incentivi giusti che la spingano a scegliere la persona migliore. Dati questi incentivi, la modalità di concorso non importa più; viceversa, se gli incentivi sono sbagliati, qualunque sia il tipo di concorso la scelta sarà sempre sbagliata.
E quali sarebbero gli incentivi?
Valutare, e premiare chi fa le scelte migliori. Per fare questo occorre avere un nucleo di valutazione, come il Civr, che stabilisce che se le scelte sono state fatte con criteri diversi dalla qualità scientifica (ad esempio per premiare amici o parenti), l’università che ha operato tali scelte si troverà i finanziamenti decurtati. Il male non sta nello scegliere la tal persona, ma nel motivo per cui la si sceglie. In questo l’esempio inglese insegna: da quando è stato introdotto il “Research assessment exercise”, che è l’equivalente del Civr, cioè il sistema di valutazione basato sulla ricerca e sulla didattica, le università inglesi hanno cambiato obiettivo e hanno cominciato a cercare quei professori e quei ricercatori che avrebbero portato più fondi, e hanno smesso di chiamare l’amico dell’amico. Il punto non è scagliarsi contro il fatto che si sanno già i vincitori dei concorsi: il punto è come sono stati scelti quei vincitori.
Quali altri priorità ci sono secondo lei per un’azione di riforma ad ampio raggio dell’università?
La priorità è non fare, non regolare. E smettere di concepire l’università come qualcosa che è diretta centralmente. La logica è estendere a tutto il resto quello cha abbiamo detto sui concorsi: lasciare le università libere di fare ciò che vogliono, entro un minimo di binari generali, ma molto generali. Entro questi termini, l’università deve essere libera di fare ciò che vuole, di organizzare l’offerta formativa come vuole, di organizzare esami, dottorati e concorsi come vuole. Dopo di che si valuta. La valutazione, dunque, non deve essere “ex ante” formale, ma “ex post” sostanziale. Faccio un esempio sulla didattica: c’è una norma che prevede che ogni laurea specialistica di qualsiasi disciplina e di qualsiasi università debba avere 18 esami. È una regola sciocca, che dà l’idea di cosa possa produrre il fatto di concepire centralmente queste decisioni: che ne sa il burocrate di quanti esami ha bisogno la laurea specialistica in astronomia a differenza di quella di psicologia o di economia? Lasciamo dunque le università libere di organizzarsi, per poi andare a verificare veramente quello che fanno. Altrimenti c’è un’ipocrisia di fondo: il centro si solleva dalla responsabilità di valutare perché, ex ante, ritiene formalmente di aver fatto la cosa giusta. Questo è molto comodo. Quindi, riassumendo, la priorità è: smettere di regolare, e cominciare a valutare.
Un’ultima domanda: oggi i sindacati si dividono sullo sciopero dell’università, e francamente escono molto ridimensionati da questa vicenda (e da altre dell’ultimo periodo). Cosa dovrebbe fare il sindacato per non essere giudicato forza “conservatrice”, e contribuire utilmente al dibattito e alle decisioni in tema di università?
Un sindacato che si oppone a ogni cambiamento e si arrocca nella difesa dello status quo finisce certamente col difendere le rendite di posizione. Di certo non aiuta i precari, soprattutto quelli bravi, dicendo che bisogna promuoverli tutti. Anche qui bisogna seguire l’esempio anglosassone delle “tenure track”: assunzioni a tempo determinato per sette anni, e al settimo anno si decide se sei assunto o no, senza che nessuno abbia ordinato che qualcuno debba per forza diventare professore. Se il sindacato proponesse questo farebbe una cosa buona. Il sindacato che invece continua a preferire la soluzione “lasciamo che monti l’onda dei precari, poi quando sta per esplodere promuoviamo tutti”, come successo negli anni ’80 e ’90, fa un grave danno all’università.