Mondo della scuola in agitazione, scioperi, manifestazioni, piazze piene di gente. Il tutto, però, senza mai dire una parola sui veri nodi della questione educativa, che, invece, dovrebbero primariamente stare a cuore a chi vive nel mondo della scuola. È questa, secondo Giorgio Chiosso, ordinario di Storia dell’Educazione all’Università di Torino, la grande «debolezza» emersa dalle manifestazioni di questi giorni.



Professor Chiosso, che cosa ha a che fare l’emergenza educazione, da più parti riconosciuta come una delle priorità per il nostro Paese, con quello che è accaduto in questi giorni?

Io noto innanzitutto una carenza principale in tutta questa inquietudine che ha caratterizzato la protesta degli ultimi giorni, e cioè il fatto che sia stato dato un taglio esclusivamente “sindacal-politico”, mentre non sono stati messi a fuoco in alcun modo temi di rilevanza educativa: il ruolo della famiglia, il significato e il valore dell’insegnamento nella scuola, il ruolo della scuola in rapporto al bene comune e ai valori sociali. Tutti questi elementi, che sono poi le trame su cui si regge l’idea educativa, sono state escluse dal dibattito. Si è parlato solo di tagli, di posti di lavoro per i precari, di ipotetiche riduzioni del tempo-scuola: in altre parole, ci si è chiusi nell’immediatezza delle scelte pratiche, senza nessun tipo di riflessione profonda, che invece doveva essere prevista e messa a monte di tutto il dibattito. Una tale separazione tra le motivazioni di fondo e le conseguenze immediate è un segno forte dell’indebolimento dell’idea di educazione, che è poi segno, più ampiamente, di una generale debolezza culturale.



Cosa pensa invece delle motivazioni concrete su cui si sono mosse le proteste del mondo della scuola?

Mi sembra che la gente cammini sul crinale di uno strapiombo e non se ne renda conto. Oltre alla debolezza educativa, infatti, abbiamo anche una debolezza scolastica intrinseca. Mi pare, infatti, che sia evidente l’urgenza di una forte riflessione sul rapporto tra costi e rendimento qualitativo della scuola. Non si può solo sostenere l’aumento del numero degli insegnanti, o combattere contro ogni ridimensionamento del personale. Prendiamo la questione dell’insegnamento elementare: non c’è nessuna ricerca scientifica che possa dimostrare che il team dei maestri abbia dato risultati migliori rispetto al maestro prevalente o al maestro unico. Le tesi di coloro che difendono la pluralità dei maestri, dicendo che la nostra scuola elementare è una fra le migliori d’Europa, non hanno alcun fondamento, perché è dimostrato da un punto di vista scientifico che la situazione era tale già alla metà degli anni Sessanta. Tradizionalmente la nostra scuola elementare ha dato ottimi risultati, quando ancora nelle nostre scuole c’erano maestri davvero unici, con classi mediamente di trenta-trentacinque alunni. Del resto sappiamo anche in Europa nessun Paese ha il team di insegnanti, e che questa è un’eccezione puramente italiana.



Qual è la sua posizione in merito alla reintroduzione del maestro unico o prevalente?

Io sono convinto che fino alla terza classe elementare sia molto più indicato un maestro prevalente, cioè una figura centrale nell’attività e nella giornata dei bambini. Dalla quarta classe potrebbe esserci anche l’alternanza: una certa forma di specializzazione disciplinare che caratterizza le classi avanzate può portare a distinguere tra maestri più adatti all’insegnamento scientifico-matematico e altri più portati all’insegnamento linguistico e storico-geografico. Ma fino alla terza questo mi sembra controindicato. Questa è la mia opinione, basata per lo più sull’esperienza; non ci sono infatti criteri scientifici oggettivi per dire che sia meglio l’uno o l’altra scelta. È l’esperienza a dirci questo. Aggiungo che in parte con la riforma Moratti si era già andati in questa direzione, introducendo la figura del maestro tutor fino alla terza, per poi dare più articolazione in quarta e quinta.

Vediamo invece i punti critici nell’azione del governo sul tema scuola: cosa c’è da rivedere?

La prima cosa di cui deve rendersi conto il governo è che i veri problemi della scuola italiana non sono certo quelli affrontati in queste settimane. Quale che sia l’opinione sul maestro unico, non è certo a livello delle elementari che la nostra situazione è problematica: i problemi sono i 900 tipi di maturità diverse, il rapporto tra formazione professionale e liceale, il numero di soggetti che subiscono ancora la dispersione scolastica, il rapporto tra istruzione secondaria e inizio dell’università, la valutazione degli insegnanti. Questi sono i punti che non siamo ancora riusciti a risolvere nel nostro paese. Io capisco che non si possa far tutto insieme; però bisogna dire che quello che finora si è fatto non è stato inquadrato in una visione complessiva. In particolare, quello che non si capisce è se questo governo intenda o meno riprendere in mano realmente il discorso impostato dalla legge Moratti: lì sì che c’era un grande impianto riformistico che andrebbe rilanciato. Invece ho l’impressione che la Gelmini sia stata un po’ vittima dell’effetto Fioroni: non fare grandi promesse, per non impressionare il mondo degli insegnanti. Invece ha ottenuto l’effetto contrario: non avendo dato l’idea di avere un progetto complessivo, ha fatto sì che emergesse solo l’aspetto dei tagli.

Qual è l’aspetto centrale della riforma Moratti che secondo lei andrebbe rilanciato?

L’elemento centrale della riforma Moratti è il rapporto fra canale professionale e canale liceale. Questo era il cuore della riforma: dare piena dignità a entrambi i canali, creando quello che in Italia non c’è mai stato, cioè una cultura del lavoro che abbia pari dignità rispetto alla cultura del sapere teorico. Questo, da un punto di vista pratico, implica poi il fatto di comprendere e realizzare bene il rapporto tra Stato e Regioni; e da questo punto di vista l’impostazione data dalla Regione Lombardia mi sembra un modello molto interessante. Bisogna dunque reimpostare la scuola secondaria articolandola intorno a due grandi poli: la scuola liceale, che ha un suo valore che va assolutamente salvaguardato; e il canale professionale, a cui va data tutta l’importanza che gli spetta.

Qual è l’ostacolo principale su questa strada?

L’idea vetero-marxista, diffusissima in ampi strati dell’opinione pubblica italiana, secondo cui l’egualitarismo significa che tutti facciano indistintamente le stesse cose, e che solo così si evitano le ingiustizie. Chi sostiene questa idea dovrebbe andare a vedere quello che accade negli altri paesi, come Germania, Inghilterra e Francia, dove il concetto di equità si costruisce proprio intorno al concetto di personalizzazione, basata sull’evidenza che i ragazzi a una certa età hanno diverse intenzioni e interessi. Il problema è superare schemi ideologici: ad esempio, in Italia è quasi tabù parlare di eccellenza. Gli altri paesi invece coltivano le loro eccellenze. E io non credo che le eccellenze nascano solo nelle case degli avvocati e dei medici: il problema è proprio quello di andare a scoprire che nascono anche nelle case degli impiegati e degli operai. In Inghilterra, è stato un governo di centrosinistra come quello di Blair che ha fatto una forte campagna per sostenere le eccellenze.

Un’ultima questione: la libertà di educazione. Che ruolo può avere questo tema all’interno di un progetto generale di rilancio del sistema scolastico?

Anche questo problema in Italia è condizionato da letture ideologiche, da cui non riusciamo ad uscire. C’è ancora un’idea di pubblico che coincide con statale; è un modo di pensare antico e sbagliato, superato dai fatti. Il futuro si incaricherà di dirci che il sistema scolastico per sua natura deve essere pluralistico, e necessariamente collegato alle realtà territoriali e alle famiglie. Anche il federalismo, da questo punto di vista, deve essere bene inteso, e non deve diventare un nuovo centralismo regionalistico. Dobbiamo fare in modo che la scuola tutta, statale e non statale, lavori in un clima di grande libertà, e di rapporto con il mondo che le è circostante. Questa dovrebbe essere la strategia anche del mondo cattolico: la difesa di un vero principio di sussidiarietà, che deve subentrare a alla figura dello Stato che vede e provvede in ogni direzione.