Professor Decleva, la legge 133 prevede tra le altre cose la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni. La norma è contestata perché vista come un’apertura alla privatizzazione delle università: è così? Oppure, come dicono altri, è al contrario una norma virtualmente giusta, ma insufficiente?
Così come è stata formulata nella l. 133 e percepita nelle università, la proposta suona come una sorta di “si salvi chi può”, collegato ai tagli. È un po’ come se ci si dicesse: “non vi va bene così? arrangiatevi a trovare finanziamenti esterni”. Ma non è così facile. Dopo l’emanazione del decreto è oltre tutto intervenuta la crisi finanziaria, determinando una situazione che renderà ancora più problematico trovare sostegni di entità adeguata ai fabbisogni. E i problemi che l’articolo di legge lascia aperti non sono d’altra parte pochi o di peso secondario. Evitiamo pure le demonizzazioni, ma evitiamo anche di venire accusati di lasciar cadere chissà quale occasione. L’abbiamo sentito da più parti: l’università subisce tagli perché se li merita, se vuole salvarsi deve autoriformarsi, se non si autoriforma è di nuovo colpa sua, della sua inefficienza e della sua incapacità di innovare, di adottare i provvedimenti legislativi che pure le sono messi a disposizione. E quindi è giusto procedere nella campagna in atto di discredito e, diciamo pure, di intimidazione. Ma questa è una deriva inaccettabile.
Quella delle fondazioni è in realtà oggi solo una fuga in avanti rispetto al nodo reale incombente e, questo sì, non eludibile, di definire un nuovo assetto della governance universitaria.
Cosa fare per riformare la governance degli atenei?
A questo scopo occorrerebbe mettere in atto un lavoro di serio approfondimento per individuare condizioni normative e finanziarie che consentano di procedere. Servono forme di governance delle università innovative rispetto alla normativa vigente, che ne incrementino l’accountability rompendo l’autoreferenzialità del sistema. In concreto si tratterebbe di porre pochi ma sostanziali vincoli lasciando poi alla autonoma autoregolamentazione degli atenei di definirne gli aspetti più specifici. Idee al riguardo cominciano d’altronde a circolare e non sarebbe impossibile arrivare anche abbastanza rapidamente a una piattaforma largamente condivisa.
La legge, inoltre, impone tagli severi all’università: esagera il governo nel tagliare i fondi, o hanno esagerato le università in questi anni a sperperare le risorse a disposizione?
Il governo sta esagerando, senza dubbio. I tagli previsti sul Fondo di finanziamento ordinario per il 2010, se si realizzeranno, non consentiranno neppure di coprire tutte le spese per il personale, che peraltro può essere retribuito solo attingendo a quel fondo. Arriveremmo in ogni caso alla situazione paradossale di avere persone che lavorano in università senza i mezzi per attuare quello che è lo specifico stesso dell’università: la ricerca, l’innovazione, la sperimentazione didattica, la formazione di nuovi ricercatori. Non parliamo di nuovi spazi o semplicemente di interventi di manutenzione, di nuove apparecchiature. Tutto diventerebbe impossibile. Non dimentichiamo che alle sue spalle l’università ha quasi un decennio di finanziamenti ridotti o comunque insufficienti rispetto all’incremento dei costi obbligatori. Molti tagli sono già stati eseguiti e non ci sono più (nel nostro caso specifico almeno) avanzi sui quali contare.
E per quanto riguarda le università che hanno sprecato risorse?
Che le università o alcune fra esse abbiano a loro volta esagerato, magari puntando su incrementi del FFO che non ci sono stati, è altrettanto vero. In singoli casi ci sono state imprudenze e sono mancati i controlli. Ma la spinta alla spesa è stata anche un effetto della normativa in vigore. Il triplo o doppio idoneo alle prove concorsuali è stato deliberato dal Parlamento. Ed è da lì che è venuta indubitabilmente la principale spinta alla crescita dei costi. Bisognava preoccuparsene per tempo, certamente. E in questo le università hanno le loro colpe. Altro fattore di crescita delle spese è stata la moltiplicazione di affidamenti e insegnamenti a contratto necessari (ma non sempre) ai nuovi corsi, a loro volta incrementati in maniera notevole. Ma, di nuovo, ce lo si poteva aspettare, dal momento che, pur di far partire la riforma, non si sono posti vincoli di nessun tipo alla proliferazione dei corsi e ai requisiti di docenza. L’ha fatto Mussi, ed è un merito che gli va riconosciuto. Ma con sei anni di ritardo rispetto all’avvio del “3 + 2”.
La critica principale sulla questione dei tagli è che si tratta di tagli lineari: in che modo e secondo quali criteri (che devono per forza di cose essere rigorosi) si possono distinguere le università più virtuose da quelle che hanno utilizzato male le risorse, per differenziare i tagli?
Il metodo del taglio lineare è il più semplice per chi lo pratica. Gli dà la certezza, perlomeno sulla carta, del risultato e gli evita di riconoscere delle priorità. Se l’università fosse stata considerata una priorità. avrebbe dovuto essere esentata dai tagli. Non è stato evidentemente così. A questo punto, ottenuto lo scopo dal punto di vista del ministero dell’Economia, si tratterà di vedere come i tagli previsti per l’università nella sua generalità verranno applicati. Non credo che abbia molto senso fare ipotesi al riguardo prima di conoscerne l’entità. Non illudiamoci in ogni caso che basti “punire” chi ha sgarrato per salvare o addirittura premiare i più virtuosi. In un modo o nell’altro il blocco del turn over in quei casi ci sarà, ma senza ripercussioni per il resto del sistema. Occorre per contro una riconsiderazione urgente del modello complessivo di finanziamento e delle sue regole. Trovando il modo di bloccare ogni possibilità di sforamenti futuri, ma prendendo anche atto del fatto che senza una riassegnazione al sistema dei tagli, il dissesto sarebbe alle porte per tutti, compresi i cosiddetti “virtuosi”.
Negli ultimi giorni si parla anche di possibili proteste “esemplari” da parte di alcuni rettori, tra cui addirittura l’ipotesi delle dimissioni: qual è il suo giudizio?
È vero, anche in sede di Conferenza dei Rettori si è parlato di dare le dimissioni o di mettere a disposizione il nostro mandato qualora i tagli previsti per il 2010 fossero mantenuti. Non sarebbe una fuga, ma un modo (se non se ne troveranno di più efficaci) di richiamare chi di dovere alle sue responsabilità. L’augurio è di non doverci arrivare, ovviamente, e che la situazione, nonostante tutto evolva positivamente.
Qual è invece il suo giudizio sulle proteste degli studenti?
Non è facile valutare un “movimento” ancora molto aurorale e composito, che, per quel che riguarda l’università, ha per il momento a disposizione come unici argomenti di riferimento quelli contenuti nelle manovre finanziarie: e quindi i tagli e la “privatizzazione”. Basteranno ad allargare i consensi? In funzione di quali obiettivi? Con quali ripercussioni sulla normale attività? Scatteranno altre motivazioni? Non dimentichiamo che ci sono gruppi che accettano le forme di rappresentanza previste e si organizzano in questa prospettiva e quelli che invece le rifiutano. Alcune iniziative tendenzialmente di rottura sono state prese nei giorni scorsi da questi ultimi. Non mi sento di fare previsioni. Il peggio che potrebbe capitarci è che l’università torni ad essere usata come terreno di scontro funzionale ad altre logiche. O che diventi un argomento del contendere fare o non fare lezione. Lascio sullo sfondo la preoccupazione maggiore, legata alle prospettive generali economico-sociali. I dati più recenti sull’occupazione dei nostri laureati a un anno dalla laurea sono decisamente confortanti. Ma sarà lo stesso l’anno prossimo? E con quali ripercussioni? E, d’altra parte, se non si potranno evitare i tagli, che tipo di servizi saremo in grado di offrire? L’augurio è che, proprio nel contesto a vario titolo critico nel quale ci troviamo, si riesca a recuperare all’istituzione universitaria credito, efficienza e credibilità: anche e in primo luogo nei confronti degli studenti.