L’Università in Inghilterra è per la quasi totalità statale, eppure è tra le migliori al mondo: le migliori università inglesi sono seconde solo alle inarrivabili università americane dell’Ivy League. Qual è il loro segreto? I fattori sono molti e collegati. Proviamo punto per punto a vederne gli aspetti di forza e di debolezza.



Gli studenti. Prima di tutto la selezione degli studenti. In una società tendenzialmente classista come quella inglese, gli studenti non fanno eccezione. Durante l’ultimo anno di liceo ogni studente fa domanda per un certo numero di università (ma o Oxford o Cambridge, per placare un po’ l’antagonismo tra i due atenei), e spera di essere accettato. Gli studenti migliori vanno nelle università migliori, e troveranno lavori migliori. Gli studenti mediocri, andranno a fare lavori mediocri. È impressionante vedere ad esempio quanti dei politici inglesi abbiano studiato PPE (Politics, Philosophy and Economics) a Oxford. Una lista (non esauriente) contiene Tony Blair, Jack Straw (ministro della Giustizia), David Cameron (capo dell’opposizione), George Osborne (ministro ombra dell’economia). Il problema si sposta quindi a come vengono valutati gli studenti: tendenzialmente sul voto degli esami di maturità, tutti scritti, e fatti in modo che a correggere ciascuno scritto siano due professori presi “a caso” su tutto il territorio nazionale. Questo rende un po’ più oggettivi i risultati, anche se ovviamente la casualità rimane, e avere una brutta maturità può veramente comportare conseguenze importanti per il resto della vita. Oxford e Cambridge ovviano a questa “rischiosità” del voto di maturità con colloqui individuali.



Le assunzioni. Come direbbe il nostro amico Brunetta “è il mercato, baby”. I migliori professori sono assunti dalle università migliori, che sono quelle in grado di offrire salari più alti. E all’interno della stessa facoltà professori di pari grado possono avere stipendi molto diversi fra loro (e che magari arrivano fino a 200.000 sterline all’anno). Le università con meno soldi possono ad esempio cercare di intercettare i “giovani talenti”, gli astri nascenti non ancora troppo cari, ma sicuramente promettenti ed in grado di produrre ricerca di alto livello. Certo è che lo studente modello, che andrà alle università migliori, riceverà un insegnamento di livello molto più alto, e sarà circondato da colleghi di pari livello, costruendo così utili relazioni per la propria vita professionale. Per contro, tendenzialmente nessuno viene bocciato. Non si possono rifiutare i voti. Gli esami si fanno una volta sola, a giugno (o a gennaio e giugno, a seconda delle università), e chi prende un’insufficienza può ripetere l’esame a settembre. Questo significa niente fuori corso e bassissima dispersione.



Le rette. L’università inglese, per le famiglie, è piuttosto economica. Fino a qualche anno fa la retta era di 1100 sterline all’anno (1500 euro circa) per tutti. Ora lo Stato ha permesso ad alcune università di alzare le rette, che possono arrivare fino a 3000 sterline (4000 euro). Per contro gli studenti possono avere facilmente accesso agli “students’ loan”, prestiti fatti apposta per finanziare la vita degli studenti, che lasciano la casa dei genitori a 18 anni tendenzialmente per non ritornarvi. Lo Stato per ogni studente ci mette del suo: circa 8000 sterline di finanziamento. La particolarità è che gli studenti extracomunitari, che non hanno quindi teoricamente finanziato con le tasse i finanziamenti dello Stato, pagano rette molto più alte: fino a 12.000 sterline l’anno (circa 16.000 euro). Questo vuol dire che i molti studenti cinesi, indiani, pachistani e quant’altro, hanno un ruolo fondamentale nel far pareggiare i bilanci. Ecco perché Oxford qualche anno fa ha deciso di aumentare la quota di extracomunitari per far quadrare i conti. E spesso (almeno per università come Oxford) questi studenti sono studenti di altissimo livello, provenienti dalle classi dirigenti di paesi ex-coloniali (tra tutti, il figlio di Benazir Bhutto a Oxford, ma anche sempre più figli di “oligarchi” russi).

I finanziamenti statali. Ogni tre anni ogni dipartimento universitario è visitato da una piccola truppa di professori di altre università, assoldata da un’autorità indipendente del Ministero dell’Educazione, che dà una pagella alla qualità della ricerca dell’insegnamento ed emette un voto, da 1 a 5 (con 5* per le università di eccellenza). Questo voto è dato in base a parametri oggettivi della qualità della ricerca. Il 30% dei finanziamenti statali dipenderà da questa valutazione. Tutti i dottorandi sanno che se cercheranno lavoro l’anno in cui questo “esame” sta per arrivare, sarà molto più difficile trovarlo: le università, per tenere alto il proprio punteggio, non vorranno assumere giovani senza pubblicazioni o quasi. Questo sistema si è rivelato molto efficiente, anche se ovviamente può generare qualche distorsione. I dipartimenti, proprio come ogni studente, potrebbero puntare a massimizzare il proprio voto piuttosto che la propria qualità. Ad esempio privilegiando risultati di breve periodo a fronte di investimenti più lungimiranti. Inoltre le ricerche al di fuori del mainstream, che non vengono pubblicate nei principali giornali della scienza “ortodossa” potrebbero essere svantaggiate (e su questo si può discutere se sia un bene o sia un male).

Gli altri finanziamenti. E poi ci sono i privati. La banca svizzera UBS co-finanzia un centro di ricerca della London School of Economics, così come la Toyota, danno finanziamenti ingenti.

E questi sono solo due piccoli esempi. Senza di questi le università inglesi difficilmente riuscirebbero ad essere all’altezza di quelle americane. Un’ulteriore fonte di finanziamento, che rende unico il caso inglese, è l’enorme patrimonio immobiliare e fondiario delle due più antiche università britanniche: Oxford e Cambridge. Secoli di lasciti e donazioni hanno creato un patrimonio immenso, che regge le finanze di queste istituzioni. Da ultimo c’è una fonte di finanziamento indiretta: il senso di appartenenza. Una volta usciti da un’università ci si sentirà sempre legati ad essa, e se il successo arrivasse, non sarebbe strano pensare di “dare indietro” qualcosa all’istituzione. Sotto forma di borse di studio (il fondatore di Easyjet alla London School of Economics, per citarne uno), o magari facendosi intitolare un’aula, uno studentato, un edificio.