Professor Alberoni, in questi giorni in cui la scuola è al centro dell’attenzione dei media si parla moltissimo di politiche scolastiche, e pochissimo, o quasi nulla, di educazione: perché l’emergenza educativa, da molti riconosciuta come una delle priorità del nostro paese, rimane sempre ai margini del dibattito pubblico?



Perché l’educazione viene ancora considerata unicamente come appannaggio o dovere della famiglia. Dopo il fascismo, che dava allo Stato un compito educativo anche nel campo della morale, i democristiani hanno avuto paura a sostenere la stessa tesi. I marxisti invece, dal canto loro, hanno identificato la morale con la politica. Oggi infatti non si usa quasi più il termine “immorale”, e questo termine è stato sostituito da “politicamente scorretto”. Ora, poi, è stato introdotto lo studio della Costituzione, ma non lo studio del corretto comportamento verso tutti gli altri, anche verso i genitori, i fratelli gli insegnanti, etc.



Cosa pensa del fatto che siano scesi in piazza insieme docenti e alunni, genitori e bambini, con i loro diversi gradi di consapevolezza? Le sembra un bel caso di dialogo generazionale, oppure chi svolge il ruolo di educatore dovrebbe avere un rapporto diverso con i ragazzi? Si è parlato anche di cattivi maestri…

Ripeto quanto ho già detto su questo tema, e cioè che quest’anno, con il decreto Gelmini, le occupazioni sono scattate come riflesso condizionato. Poi le cose sono cambiate. Trovandosi  a  discutere fra di loro e con gli  insegnanti, sulla scuola, sulle prospettive di lavoro, sulla crisi  economica,  partecipando o ascoltando i dibattiti, gli studenti hanno incominciato ad esaminare  criticamente la  scuola italiana e se  stessi. È la prima volta che succede. E molti  ragazzi, fuori o dentro i cortei  di protesta, oscuramente  percepiscono che  ci  vorrebbe una  vera riforma  che  renda tutto  più efficace ed  efficiente: materie, insegnamento, ricerca, concorsi, laboratori, studi  più rigorosi  e preparazione al lavoro. Cose che, in realtà,  non ci sono perché né loro, né i  loro  genitori, né i docenti, né i sindacati le hanno mai  realmente volute.



Lei dice che i ragazzi che protestano in questi giorni «oscuramente percepiscono che ci vorrebbe una vera riforma»; gli adulti invece – docenti in primis – sembrano scendere in piazza per lasciare tutto com’è. Possiamo dire che le giovani generazioni si stanno “auto-educando” a una visione più matura della realtà rispetto a chi li ha preceduti?

Sì, anche per effetto della mondializzazione, che ci ha fatto capire come sia fragile il nostro sistema produttivo, e della crisi, che ci minaccia tutti. Sono spariti i sogni di una vita facile e senza lavoro (pensiamo ad esempio alle proposte di qualche anno fa, come la settimana da 35 ore). Questo ha di fatto indebolito il potere dei sindacati, soprattutto della Cgil, e ha rotto l’unione sindacale nata nel 1969, col movimento che fu denominato “autunno caldo”. Questo “spirito dei tempi” tocca anche i ragazzi, che hanno una visione più realistica rispetto alla generazione che li ha preceduti.

Ogni volta che c’è un movimento di protesta i media cercano di dare una fisionomia precisa al fenomeno, con tanto di caratteristiche particolari e con relativo nome (questa volta si parla di “Onda”): non le sembra che a volte si ecceda in queste analisi sociologiche? In altre parole: esisterebbe questa ondata di protesta se non ci fossero sindacati e politici interessati a darle fiato?

Dal punto di vista sociologico la parola “onda” non significa nulla, ed è stata inventata dai giornalisti. I sociologi conoscono i movimenti collettivi, e quello in atto non appartiene affatto a questa categoria. Movimenti collettivi sono stati il movimento studentesco del 1967-68, quello sindacale del 1969-71, il sommovimento legato a “mani pulite”, oppure i movimenti politici come la Lega e Forza Italia. Poi basta. L’agitazione e le occupazioni di oggi, invece, sono tutte prodotte da gruppi organizzati della sinistra.