Cei chiama, governo risponde (forse). In questi termini, secondo Attilio Oliva, è stata ancora una volta vissuta, da politici e media, la questione dei finanziamenti pubblici alla scuola paritaria. Cosa sia e quali benefici possa portare all’intero sistema scolastico una vera parità sembra un problema che non interessi a nessuno. Eppure, studi, ricerche e raffronti internazionali (attività in cui eccelle l’Associazione TreeLLLe di cui Oliva è presidente) sono lì a dimostrare chiaramente quanto un sano confronto tra scuole statali e non statali, e tra modelli organizzativi e didattici diversi, faccia bene al sistema di istruzione.



Non le sembra che il nostro Paese sia ancora fermo ai tempi della breccia di Porta Pia?

Questa è purtroppo la situazione in Italia: la questione della parità scolastica si configura ancora all’interno dei rapporti tra Stato e Chiesa. C’è ancora una coda ideologica che ci pone sulla scia della scuola da sottrarre ai gesuiti e al clero da parte di uno Stato laico e democratico che avanza. Il fatto di vivere ancora questa contrapposizione ci isola dal resto d’Europa: ci sono paesi di grande civiltà liberale e altri di grande tradizione democratica, e socialdemocratica, dove il ruolo della scuola paritaria, religiosa o non religiosa, è largamente riconosciuto e finanziato in tutto o in parte dallo Stato. Questo accade in Olanda, in Belgio, in Francia e in altri paesi, dove la percentuale delle scuole non statali raggiunge il 15 o il 20% del totale. E ripeto: è finanziata dallo Stato, con modalità che variano da paese a paese.



Quali ragioni ci differenziano dal resto d’Europa?

Ciò che ci distingue è quel retaggio ideologico che sfalsa e corrompe un sano e costruttivo dialogo intorno a questo tema. Forse questo accade per la nostra storia, perché siamo il paese dove risiede il Papa, e dove il clero ha avuto un ruolo particolarmente forte anche all’interno dei poteri secolari. Ci sono dunque ragioni storiche che ci possono portare a comprendere perché certe reazioni siano dure a spegnersi. Ragioni che si possono comprendere, ma non certo giustificare. Detto in parole povere, siamo fuori tempo massimo: all’inizio del 2000 non possiamo permetterci di mantenere viva questa contrapposizione. E soprattutto non dovrebbero permetterselo i media, che troppo spesso alimentano lo scontro.



Eppure la parità esiste, ed è anche riconosciuta dalla legge

Certo, la legge sulla parità esiste, ed è stato un salto formidabile realizzato dal ministro Berlinguer sin dal 2000. Dobbiamo ammettere che la sinistra riformista è riuscita a fare quello in cui nemmeno i democristiani erano riusciti. Il problema è che ci siamo illusi che questo potesse segnare la fine di una storia non più adeguata ai nostri tempi. Ora dobbiamo purtroppo ammettere che così non è stato, e che ancora ricadiamo in una contrapposizione antica, che ci rende anche un po’ infantili.

Al di là delle contrapposizioni ideologiche, quali altri motivi frenano la strada della parità?

Il freno maggiore è dato dal fatto che non si riesca a far propria l’idea che il quasi monopolio statale di oggi e per di più a gestione fortemente centralizzata è un limite potente all’innovazione. Se abbiamo a cuore che la scuola migliori, e che migliorino i suoi protagonisti, insegnanti e presidi, allora abbiamo tutto l’interesse ad attivarci perché si crei un meccanismo di emulazione tra tutti i soggetti: tra scuola e scuola, tra insegnante e insegnante, tra preside e preside.  L’obiettivo strategico è dunque che, attraverso il confronto, la stessa scuola statale possa migliorare. La tensione al miglioramento viene solo dal confronto, e dalla valutazione qualitativa degli apprendimenti, dall’organizzazione delle scuole e dal confronto della loro efficacia ed efficienza (anche il controllo dei costi è tutt’altro che irrilevante). E qui veniamo al grande buco nero della nostra scuola.

Quale?

La valutazione. Da noi è una cosa che non esiste, non si valutano con test nazionali oggettivi gli apprendimenti degli studenti così come avviene da anni in molti paesi europei. Non si valutano i docenti, non si valutano i presidi, non si valutano le scuole. Ciò che invece può portare a un vero progresso sono proprio i confronti, tra scuole di tutti i tipi, statali e non statali, che siano di stimolo l’una all’altra mettendo in gioco tutta la propria capacità di iniziativa e di innovazione, didattica e organizzativa. Luigi Einaudi diceva chiaramente che una scuola figlia del monopolio statale sarebbe stata vittima della staticità e della scarsità di innovazione. Quindi il confronto tra scuole statali e non statali è un bene intrinseco, e se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. In Italia la scuola statale comprende il 95% degli studenti; se noi, riducendo i finanziamenti, schiacciamo anche quel 5%, che sarebbe bene incrementare, non faremmo altro che l’ultimo passo verso il monopolio assoluto dello Stato. E sarebbe un gravissimo errore strategico.

Per quanto riguarda i modelli di finanziamento, non ritiene che i soldi dovrebbero essere affidati direttamente agli utenti, che poi decidono come e dove spenderli?

Per rispondere mi ricollego ancora al problema della valutazione: allo stato attuale mi parrebbe una fuga in avanti, perché dare agli studenti e alle famiglie i soldi per scegliere, dal momento che manca un sistema di valutazione che possa dare ai cittadini le indicazioni utili per scegliere la scuola migliore, sarebbe una cosa sostanzialmente inutile. È come mettere in mano a una persona uno strumento che non è in grado di utilizzare. Per cui questo tipo di finanziamento è comunque da subordinare all’introduzione di un serio sistema di valutazione.

Mentre parliamo di riforme, il governo ha deciso di rinviare di un anno la riorganizzazione della scuola superiore: non le sembra l’ultima di una lunga serie di timidezze della politica sul fronte scolastico?

Il sistema scuola è un sistema che è rimasto sostanzialmente uguale a se stesso da mezzo secolo: se tutto il mondo cambia e la scuola non cambia, qualche problema ci sarà. Ora, per affrontare questi problemi l’unico modo è che le forze politiche, come succede in tutti i paesi più evoluti, lavorino in stretta collaborazione. Ci sono paesi d’Europa in cui le riforme sulla scuola necessitano in Parlamento di una maggioranza qualificata. Da noi invece chiunque vada al governo viene fin da subito assalito dall’opposizione per qualunque modifica anche ragionevole voglia portare avanti. È avvenuto a Berlinguer, ed è avvenuto alla Moratti, ora alla Gelmini.

Come se ne esce?

Per ora non se ne esce: anche questo governo è partito lancia in resta, con proposte buone o meno buone, ma certo con uno spirito di innovazione, ad esempio per ridurre gli sprechi e per utilizzare i soldi meglio. E d è stato aggredito come tutti sappiamo; ma la stessa sorte avevano avuto i governi di sinistra, in particolare quando era ministro Berlinguer. Se ne uscirebbe solo se le forze politiche di maggioranza e opposizione si sedessero intorno a un tavolo e decidessero cosa si deve fare: e tutti sanno benissimo che cosa bisogna fare. Fuori da questa strada continueremo con la politica degli annunci e dei rinvii. È una situazione ormai drammatica: dopo la riforma delle medie negli anni 60 non è più stato fatto nulla per l’istruzione secondaria, sia tecnica che liceale. Una cosa inconcepibile.

(Rossano Salini)