Come già discusso ieri su ilsussidiario.net, l’Invalsi ha prodotto nei giorni scorsi un documento programmatico su come impostare la valutazione per il nostro sistema scolastico. Daniele Checchi, dell’Università degli Studi di Milano, è tra gli autori di questo documento, e ha accettato di approfondirne i contenuti.
Professor Checchi, il primo obiettivo che si pone un documento come questo è il fatto di colmare il vuoto accumulato dall’Italia sul fronte della valutazione: che cosa ha frenato l’introduzione di una cultura della valutazione nella scuola italiana?
Per rispondere con una battuta, direi che questo è la conseguenza del fatto che la scuola appartiene alla pubblica amministrazione. È una malattia generale della pubblica amministrazione, infatti, quella di non aver interiorizzato il principio che occorre rendere conto alla collettività delle risorse impiegate nel proprio servizio. A questa cura è stata sottoposta in prima battuta la sanità: non c’è stato un sostanziale miglioramento dal punto di vista del risparmio delle risorse, ma quanto meno un allargamento della coscienza che la sanità costa risorse e che quindi c’è un problema di come usarle in modo ottimale. Adesso ne è stata investita in parte anche la scuola. In questo ambito però l’ostacolo principale è dato dal fatto che è molto difficile far passare tra gli insegnanti, e anche tra i docenti universitari, la cultura per cui bisogna dar conto alla società di ciò che si fa
Quali sono le difficoltà più grosse proprio da parte dei docenti nell’accettare questo passaggio?
La difficoltà più grossa è che si è sempre pensato in modo distorto il principio della libertà di insegnamento: si dice che un discente non può esprimere valutazioni sul docente, e solo i pari possono esprimere valutazioni su altri docenti, con ciò implicitamente creando una specie di coalizione anti-valutazione, dal momento che nessuno parlerebbe male di un proprio collega. Poi non viene accettata l’idea della comparazione; questo però può essere superato dal fatto che i valutatori partono sempre come primo livello dall’autovalutazione, quindi dalla presa di coscienza della propria situazione. Superato anche questo ostacolo, bisogna poi fare i conti con la resistenza alla misurazione: si dice che l’attività didattica, essendo un fatto relazionale, non può essere misurata. Cosa in parte vera, ma che non può bloccare il processo valutativo: esistono infatti elementi dell’apprendimento che sono oggettivamente misurabili. Anche superate tutte queste resistenze dei docenti, si presentano poi i problemi di natura politica.
Vale a dire?
Il fatto di chiedersi qual è l’uso che si può fare di un’iniziale valutazione e di una misurazione degli esiti dal punto di vista delle politiche. Si possono ad esempio usare gli esiti della valutazione per intervenire laddove c’è un basso risultato, per dare strutture di supporto a chi è in difficoltà; oppure guardare chi ha risultati elevati, con l’intento di procedere in senso meritocratico e premiare chi va bene. Oppure si può fare un combinato dei due. La cosa importante è che tutto ciò venga enunciato all’inizio, perché ovviamente ogniqualvolta si faccia un esercizio di misurazione la misura che viene utilizzata può essere manipolabile dal valutato.
Quali sono i modelli internazionali di riferimento? E quali paesi sono più avanzati sul versante della valutazione?
L’esperienza estera di riferimento è quella dei sistemi scolastici secondari non settorializzati: i sistemi anglosassoni. Un sistema uniforme ha infatti bisogno di misurazioni oggettive dei livelli di apprendimento. Mentre noi sappiamo tendenzialmente che uno studente liceale ha certe capacità rispetto a uno studente di un istituto tecnico, se il sistema è uniforme bisogna avere delle misure che siano oggettive. Quindi i paesi con sistemi così strutturati hanno negli anni maturato un sistema di valutazione più complesso e attendibile, che può valere come punto di riferimento.
Fissare i principi per impostare la valutazione è una cosa importante, ma altrettanto fondamentale è poi come effettuare questo sul campo: abbiamo i precedenti delle prove Invalsi di terza media che hanno evidenziato notevoli storture. Come assicurare una giusta applicazione di questi meccanismi di valutazione?
Il requisito importante è quello della terzietà. Quello che è accaduto sulla quarta prova Invalsi è legato al fatto che la somministrazione è stata fatta dagli insegnanti; sarebbe bastato mandare esaminatori esterni e questo problema non ci sarebbe stato. Ma lo stesso poi vale anche per la maturità, dove ci sono segni evidenti che sia degenerato il clima. Il fatto, ad esempio, che il 27% degli studenti pugliesi prenda 100 e lode alla maturità vuol dire che nessuno ritiene necessario verificare che il voto significhi qualcosa. Questa spinta alla valutazione deve quindi essere recuperata.
Come si collega il problema della valutazione con gli altri aspetti di una possibile riforma della scuola, cioè con quegli elementi, come l’autonomia, che possono far uscire dall’eccessiva centralizzazione del nostro sistema?
La valutazione avrebbe dovuto essere una pre-condizione dell’autonomia, nel senso che nel momento in cui si dà autonomia alle scuole bisogna valutare quali effetti produce ed eventualmente ricorrere ai ripari se si creano situazioni strane. Questo non è accaduto. Io mi aspetto che la valutazione possa servire non solo a controllare ma anche a garantire una maggiore autonomia alle scuole. Ora ci troviamo in una situazione un po’ strana, perché le scuole di gradi di autonomia veri, nella selezione del personale e nella gestione delle risorse, ne hanno veramente pochi. Non ci si può limitare a dire: “ti do autonomia bassa e non ti valuto”. Ci vorrebbe al contrario più autonomia e più valutazione.
E sulla parità?
Anche sul fronte della parità la valutazione può essere molto utile. Noi sappiamo che uno dei problemi dal punto di vista degli apprendimenti è che le scuole paritarie tendono ad avere mediamente perfomances più basse; non in tutti i Paesi, ma in Italia sì, e questo dipende da come si è posizionata la scuola paritaria sul mercato dell’istruzione. Da questo punto di vista l’obiezione è che con la parità si darebbero risorse a scuole che vanno peggio, e quindi non si andrebbe a migliorare l’efficienza. Una buona valutazione, invece, anche del punto di partenza degli studenti, porterebbe al superamento di molti di questi aspetti.
Che cosa pensa delle polemiche che ogni tanto vengono sollevate dai giornali sulla funzione e sull’eccesso di spese dell’Invalsi?
Il problema è che non è assolutamente vero che si spenda tanto. Il problema dell’Invalsi è tutt’altro: che non ha organico per fare quello che deve fare. Tenga conto che un paese come l’Inghilterra spende 85 milioni di euro per la valutazione del proprio sistema scolastico, mentre l’Invalsi costa 300 o 400 mila euro, e il personale dipendente è di 15 persone. Il motivo per cui la valutazione in Italia è rimasta indietro è anche il fatto che fondamentalmente non c’erano soldi da mettere su questa partita. Quindi c’è solo da augurarsi che si investa di più.
(Rossano Salini)