«Penso che si debba dare atto al ministro Gelmini di aver ripreso un percorso riformista, che era venuto meno con il ministro precedente». Giorgio Chiosso, professore di Storia dell’Educazione all’Università di Torino, riconosce un primo merito al ministro Gelmini: si è tornati quanto meno a parlare di riforma delle superiori, e questo è già un elemento importante. Sul come se ne stia parlando, e sulla sostanza dei primi provvedimenti approvati in Consiglio dei ministri, il giudizio non è però altrettanto positivo.
Professore, prima il positivo: che cosa c’è di buono in quanto emerso dall’ultimo Consiglio dei ministri a proposito del riordino della scuola superiore?
Direi che al di là delle tante critiche che sono emerse in questi mesi, spesso su cose non sostanziali, bisogna riconoscere al ministro che c’è l’intenzione di riprendere il filo di un ripensamento complessivo del sistema scolastico, come già era avvenuto nel quinquennio Moratti. In particolare è poi importante che si torni a parlare di scuola superiore: non bisogna dimenticare che la scuola secondaria superiore è sostanzialmente ferma agli anni Sessanta, fatta eccezione per i progetti Brocca dei primi anni Novanta. In questi decenni non c’è stato altro se non l’esplosione smisurata di sperimentazioni, fino ad arrivare al numero abnorme di maturità che abbiamo in questo momento. Quindi mi pare utile tornare a porre il problema dell’esigenza di un processo di razionalizzazione, che ci allinea agli altri paesi che hanno ripensato la struttura della scuola secondaria.
Se col ministro precedente si era interrotto il discorso riformistico, allora vale la pena, come lei già accennava, riprendere il discorso della riforma Moratti: quanto previsto dalla Gelmini si colloca su quella scia?
Ecco, da questo punto di vista mi pare invece che si debba muovere una critica alla Gelmini. Il ministro sta infatti snaturando la sostanza della riforma Moratti: ha fatto proprie una serie di richieste che si sono snodate in questi due anni con il lavoro di un’apposita commissione sull’istruzione tecnica e professionale (la commissione De Toni) e che ha radicalmente modificato l’impianto della riforma Moratti. Il fatto di ricondurre tutta l’istruzione tecnica e professionale dentro la scuola governata dallo Stato, senza riconoscere invece il ruolo delle Regioni in questo campo (come per altro previsto dal Titolo V della Costituzione) mi sembra essere il segno di un ritorno a un neo-centralismo statalista. Lo dico con molta franchezza: in questo vedo sia un elemento di scarso coraggio, sia il fatto di perdere di vista il valore di un tipo di istruzione e formazione molto legata al territorio e alle esigenze del mondo economico e produttivo. Si ritorna indietro rispetto alla svolta concettuale portata avanti con la riforma Moratti.
Qual era la sostanza di questa svolta concettuale, su cui secondo lei bisognerebbe tornare?
La riforma Moratti si basava sul principio del doppio canale: un canale liceale e poi universitario, e un canale della formazione professionale e dell’istruzione superiore di tipo professionale, in tutto alternativo al precedente, e che doveva svolgersi in maniera compiuta dai 14 ai 22 anni. Questi due canali dovevano acquisire la stessa rilevanza, anche dal punto di vista sociale, superando la visione tipica della struttura scolastica italiana, secondo la quale i licei devono rivestire un ruolo di predominanza e di maggiore validità.
Dunque era una valorizzazione dell’importanza del lavoro, anche manuale.
Il principio fondamentale era proprio questo: sottrarre la formazione professionale a quella visione riduttiva che portava a concepire il lavoro come opzione di riserva, da lasciare ai drop-out, ai ragazzi in difficoltà per vari motivi, agli immigrati, a chi non era in grado di svolgere il percorso scolastico. Era un grande salto culturale: recuperare la piena dignità del lavoro, affiancata alla cultura teorica del liceo. Il tutto tenendo conto della personalizzazione: la scuola e la formazione professionale devono essere al servizio delle inclinazioni, delle caratteristiche dei ragazzi. La vocazione al sapere operativo deve avere un suo proprio riconoscimento, e non bisogna costringere i ragazzi a rimanere prolungatamente nella scuola. Ricondurre tutto alla dimensione “scolastico-centrica” mi sembra dunque un elemento di debolezza culturale.
Per attuare questo, si diceva, è fondamentale il ruolo delle Regioni. Molti sostengono però che alcune Regioni non sarebbero pronte a questa impostazione: come ovviare a questo limite?
Questo è uno degli argomenti che viene portato per giustificare la resistenza del modello centralista. Non nego che l’obiezione sia giustificata; ma nulla vieta che questo processo potesse essere programmato in modo graduale. Lo stesso, ad esempio, avviene per gli ingressi dei vari paesi nell’Unione europea, per cui i paesi entrano nel sistema europeo quando sono pronti; così nulla vietava che le Regioni che sono già pronte potessero da subito acquisire la padronanza complessiva del sistema, mentre altre vi accedessero invece in modo più graduale. A volte però si sostiene categoricamente che alcune Regioni siano incapaci di gestire cose importanti: questo mi rifiuto di crederlo.
Ora abbiamo di fronte un anno, e si è detto che servirà per aprire un “ampio dibattito”: quali dovranno esserne gli elementi centrali?
È giusta l’idea di aprire un dibattito, di far capire alle famiglie quali sono le novità, di permettere agli insegnanti di familiarizzare con i nuovi orientamenti dei programmi. Credo che ci sia la necessità di metabolizzare l’idea di cambiamento. Però c’è anche una preoccupazione, e cioè che il dibattito finisca con lo svolgersi solo sul piano tecnico-informativo, oppure secondo una logica di sindacalismo meramente rivendicativo. Non vorrei che si evitasse (ancora una volta) di andare a toccare il cuore del problema: che senso ha la scuola oggi per i ragazzi che hanno tra i 14 e i 19 anni? Che senso ha lavorare con gli adolescenti? Che senso ha oggi mettersi in concorrenza con i grandi produttori di mentalità, di stili di vita dei ragazzi? Gli insegnanti sono solo dei tecnici che impartiscono conoscenze, o hanno una responsabilità più grande?
È il grande tema dell’emergenza educativa…
È proprio questo. Bisognerebbe tornare ad avere un ampio dibattito sulla sostanza: la riforma, infatti, ha senso se noi rilanciamo un grande dibattito sull’idea educativa nella scuola. Altrimenti facciamo un passaggio che si limita a riorganizzare le strutture. Finché poi, a un certo punto, emergono episodi come il bullismo o il disagio dei ragazzi, e improvvisamente ci rendiamo conto che c’è un problema educativo di cui non si era tenuto conto. Dobbiamo porci da subito il problema: c’è una grandissima quantità di studenti che fa fatica ad andare a scuola, che si annoia, che trova più stimoli a navigare in rete o a fare altro. Tutto questo è casuale, o c’è una qualche responsabilità educativa della scuola? Ecco da dove bisogna ripartire.
(Rossano Salini)