Il rinvio alla primavera 2009 del varo dei Regolamenti relativi alla scuola secondaria di secondo grado ha suscitato tra gli addetti ai lavori reazioni di vario segno, come ha documentato questo giornale. Qualcuno ritiene che finalmente si avvierà, come annunciato dal Ministro, la “svolta storica”, che si attende dal 1945; altri che si tratta del 37° rinvio della riforma, a 85 anni da quella di Giovanni Gentile e che, considerato il quadro politico-elettorale dell’anno 2009-2010 che si annuncia, sarà un rinvio sine die. Altri hanno approvato l’idea, già della Moratti, di semplificare radicalmente il numero abnorme di indirizzi, di sperimentazioni, di progetti, cresciuti con una dinamica tumorale sull’albero piantato alla fine degli anni ’80 da Beniamino Brocca. Ma altri sottolineano che, in evidente continuità con le scelte di Fioroni, si spezza il tentativo fatto dalla Moratti di una doppia canalizzazione della scuola secondaria di secondo grado tra Licei e Istruzione tecnico-professionale e si torna alla licealizzazione e statalizzazione integrale pre-Moratti. Con ciò rendendo sempre più problematico il collegamento della scuola con il mercato del lavoro e, perciò, aggravando la dispersione.
Altro capitolo è quello della reazione della “scuola militante”. Chi temeva cambiamenti troppo immediati e non gestibili ha tirato un sospiro di sollievo, chi si attendeva un nuovo inizio è precipitato nello scoramento. La scuola primaria e quella secondaria di primo grado lamentano di essere ancora una volta l’oggetto esclusivo delle attenzioni del Ministro dell’Istruzione e delle Finanze e attendono con allarme crescente le iscrizioni entro il 28 febbraio 2009 e le scelte dei nuovi quadri orari, destinate a lasciare senza cattedra una parte del personale. Di alcune delle succitate opinioni arriverà una verifica dirimente entro il giugno 2009, termine di scadenza della Delega governativa ai Regolamenti.
Di alcune affermazioni è possibile già da ora prendere le misure, a partire da qualche dato autoevidente. Il primo dato è che la crisi del sistema educativo nazionale non è il frutto di un tradimento del modello gentiliano originario. E’ l’effetto di non corrispondenza crescente di quel modello con il sistema produttivo, socio-economico e antropologico della terza rivoluzione industriale. Il modello gentiliano venne costruito per una società agrario-industriale, per la formazione esclusiva delle classi dirigenti, per un’istruzione superiore di pochi. L’avvento pieno della seconda rivoluzione industriale dagli anni ’50 – con la domanda impellente di una scolarizzazione superiore di massa – e l’inizio della terza rivoluzione industriale dagli anni ’70 hanno scomposto definitivamente il mosaico di Giovanni Gentile e di Bottai. L’incapacità della cultura e della politica della Repubblica di costruirne un altro ha portato ad aggiustamenti parziali, a superfetazioni successive del vecchio modello. E’ la storia delle “riforme” degli ultimi cinquant’anni. Ma l’idea di tornare al modello puro, liberato da ogni superfetazione, è tipica del fondamentalismo neo-gentiliano, che si illude di affrontare la modernità ritornando alle origini, quasi che la storia successiva fosse solo una serie di tradimenti e di degradazione. La storia è cambiata, il modello deve cambiare. Di questo hanno preso atto dagli anni ’70 i principali Paesi europei, nostri competitori sul mercato europeo e mondiale dell’educazione.
Il secondo dato è che il sistema educativo nazionale è un sistema complesso, all’interno del quale le relazioni tra gli elementi costitutivi non sono né monocausali né unidirezionali. Se il nucleo del sistema è la relazione educativa insegnante-alunno, essa si incardina in un sistema amministrativo, in un curriculum culturale, in un ordinamento, in un assetto istituzionale, in un assetto professionale. La didattica concreta è tutto questo. Che il nucleo sia depurabile dagli assetti che lo circondano è pura illusione astratta, giacché questi lo determinano a loro volta. Ne consegue che non esistono mono-soluzioni dei problemi. La sola pratica della relazione educativa non è sufficiente a creare le condizioni per la riforma del sistema. Partire “dal basso”, dall’esperienza quotidiana è necessario, ma non sufficiente. Non basta il bricolage. Occorre avere in testa un’idea di riforma, che comprenda tutti gli aspetti dell’oggetto complesso, senza l’illusione che privilegiando ora la didattica, ora l’autonomia, ora la valutazione, ora le discipline, ora l’insegnante si possa trovare la pietra filosofale che cambi l’intero sistema, si possa dalla scintilla passare all’incendio della prateria.. Se il modello è complesso, la sua costruzione non è semplice né lineare nel tempo. Del mosaico occorre avere in mente il disegno fin dall’inizio, ma la collocazione delle tessere dipende da azioni culturali, legislative, amministrative, politiche coerenti. Non ne basta una sola.