2.975. Questi sono i punti assegnati a Cambridge dal “Research assessment exercise”, meglio conosciuto da noi italiani come RAE, l’istituto paragovernativo che ha la mansione di stabilire le eccellenze fra le università di Sua Maestà. Per la prima volta l’ateneo batte la storica rivale Oxford che si ferma a 2.959 punti seguita dalla London School of Economics e dall’Imperial College. Ma cosa significa tutto questo per noi profani del Continente? E soprattutto la valutazione riguarda più l’aspetto della ricerca o quello della didattica? Sarebbe possibile stilare un’analoga classifica nel nostro Paese? A queste domande risponde Max (Massimo) Beber, milanese e inglese d’adozione, Director of studies in Economics presso il Sidney Sussex College di Cambridge, nonché Affiliated Lecturer presso il centro di studi internazionali della medesima università.  



 

Professor Beber, che importanza ha, per chi l’ha vissuto dall’interno, questo storico sorpasso da parte di Cambridge?

In realtà il semplice fatto del “sorpasso” di Cambridge su Oxford è un episodio dal significato molto relativo, perché il superamento dipende dal modo con cui vengono misurate, sommate e ponderate le variabili di questa valutazione. Alla nostra università naturalmente il fatto di aver superato la storica avversaria va benissimo, soprattutto per gli effetti che questo dà in termini pubblicitari. Però in realtà le valutazioni sono legate a variabili che rendono non particolarmente significativo il fatto di passare dal primo al secondo posto, o viceversa. La notizia rimane comunque interessante perché ricorda e permette di sottolineare ancora una volta che il 40-50% dei risultati a livello di ricerca dati dai nostri dipartimenti e dalle nostre facoltà più importanti viene considerato di assoluta eccellenza a livello internazionale.



Per ottenere tali risultati di eccellenza a livello internazionale bisogna avere un sistema che funziona bene: qual è il segreto del sistema universitario inglese?

La prima cosa da rilevare è il fatto che fino agli inizi degli anni ’80 accedeva all’università inglese solo una piccola porzione di studenti, vale a dire nemmeno il 15%. Questa situazione è stata radicalmente trasformata, a partire dalle politiche scolastiche di Margaret Tatcher, soprattutto grazie alla trasformazione in università dei vecchi politecnici, che erano istituti di istruzione terziaria che miravano a dare un’alta professionalità. La strategia di aumento della frequenza universitaria è continuata in questo ultimo decennio di New Labour, in particolare con l’adozione di un target esplicito del 50% di partecipazione all’istruzione terziaria (attualmente, la percentuale di iscritti supera il 43%). Questa frequenza universitaria quasi triplicata ha dovuto essere gestita all’interno di una struttura di finanziamenti per molto tempo statica: solo alla fine degli anni ’90, infatti, venne introdotto il sistema di prestiti d’onore sia per il mantenimento sia per il pagamento di rette universitarie che, inizialmente fissate a £ 1,000 l’anno, superano oggi le £ 3,000 annuali.



Che cambiamenti ha portato il fatto di aver ampliato il numero di studenti?

La partecipazione all’università è andata aumentando notevolmente, e ora siamo a percentuali vicine a quelle italiane. In una situazione di grande allargamento dell’utenza, e di dinamica statica, o comunque molto più lenta, è diventata sempre più forte la domanda di efficienza e di valutazione, sia della didattica che della ricerca. Teniamo comunque conto del fatto che, almeno per le università maggiori, è rimasto un forte livello di selettività all’entrata. Il maturando inglese fa una scelta di quattro o al massimo cinque università diverse, in cui vorrebbe frequentare un determinato corso di laurea; le offerte poi vengono fatte dalle università stesse, sulla base dei risultati scolastici e (talora) sulla base di colloqui di ammissione. In tale contesto il tasso di abbandono degli studenti è storicamente molto più basso rispetto a quello italiano: anche oggi, quasi tutti coloro che si iscrivono a corsi universitari “tradizionali” in università di alto rango portano tendenzialmente a termine gli studi. Va notato peraltro che la situazione è in misura crescente differenziata: specificamente il tasso di abbandono è molto più elevato in corsi di laurea e presso università dal profilo più modesto – anche se questo non ha, finora, portato ad una struttura differenziata di rette universitarie.

Il buon funzionamento dell’università è legato più alla ricerca o più alla didattica?

Questa è una domanda di importanza fondamentale, alla quale nel caso inglese è possibile dare una risposta fornita di un qualche supporto empirico, dato che sia la ricerca sia la didattica sono oggetto di una periodica valutazione esterna. Da una parte c’è il “Research assessment exercise” (RAE), che consiste in una valutazione quinquennale dei risultati delle ricerche effettuate dagli atenei. Dall’altra parte c’è un sistema equivalente di valutazione della didattica, anch’essa fatta da valutatori esterni e con risultati completamente pubblici. In sintesi, i dati confermano una correlazione fortissima e di lungo periodo tra qualità della ricerca e qualità della didattica, ed è un legame che porta ad ottenere proporzionalmente ottimi risultati in entrambi i campi. Dal punto di vista della strategia nazionale dell’investimento in capitale umano – se non nella prospettiva del singolo ateneo – non c’è assolutamente la spinta a creare esamifici da una parte, e dall’altra centri di ricerca che concepisono gli esami come una perdita di tempo.

In che modo gli studenti, che sono l’oggetto della didattica, vengono coinvolti anche nel mondo della ricerca accademica?

Soprattutto all’interno del Collegiate System di Oxford e di Cambridge, questo coinvolgimento avviene attraverso una concezione della didattica molto diversa da una catena di montaggio. La caratteristica chiave di questo sistema è che il momento delle lezioni tradizionali viene integrato dal sistema delle “supervisions” (Cambridge) o “tutorials” (Oxford), didattica di piccoli gruppi che coinvolgono fino a quattro studenti (e talora un singolo) in discussione con un accedemico (lecturer, reader, e tuttora spesso professori ordinari e presidi di facoltà). Il college poi – come struttura abitativa degli studenti e sede centrale di lavoro per molti degli accademici, in particolare nelle scienze umanistiche –  offre un ambiente molto favorevole ad iniziative culturali svariate: dai club musicali, artistici e sportivi, in cui spesso compartecipano studenti e ricercatori, alle varie società di materia , ad una serie di occasioni formali, da cene e feste commemorative, a momenti do consuntivo e di programmazione degli studi gestiti dallo studente in dialogo con le figure del Direttore di Studi o del Tutore. In questo modo si creano diverse occasioni di incontro tra il ricercatore accademico e lo studente. E la condizione importante per ottenere questo sistema veramente positivo è il fatto di avere una struttura di college come quello delle università inglesi. È in tale contesto che le università che ottengono i risultati migliori per la ricerca sono anche quelle che fanno la didattica migliore.

Alla luce di quanto detto sulle università inglese, che cosa l’Italia ha secondo lei da imparare da tutto questo?

Nel breve periodo l’importanza di sistema di valutazione delle attività fondamentali dell’Università – la ricerca e la didattica; nel lungo periodo, l’importanza di non rimanere schiavi di strumenti efficaci nello “sgrosso” (l’eliminazione dell’inaccettabile), ma imprecisi nel dettaglio (lo stimolo dell’eccellenza). Nelle sue prime edizioni il RAE ha avuto in Gran Bretagna un effetto importantissimo nel facilitare l’impostazione di un livello minimo di efficienza all’università: permise cioè di eliminare molta “legna morta”, perché attraverso l’utilizzo di criteri oggettivi si è riusciti ad individuare con certezza i punti non produttivi del sistema, a riformarli, se possibile, e ad eliminarli. Questo andava fatto e metriche oggettive, anche se approssimative, di produttività, si sono dimostrate appropriate nell’affrontare diciamo il peggior 20% dell’attività universitaria, sia di ricerca sia di insegnamento. Questo mi sembra un dato di fatto robusto e perciò uno spunto di riflessione valido anche in contesti nazionali profondamente diversi quale quello italiano: in particolare un aspetto importante di un legame sistematico fra risultati del sistema di valutazione e allocazione delle risorse consiste nella possibilità di migliorare le esperienze di insegnamento e di apprendimento, e quella della ricerca, attraverso l’eliminazione degli sprechi e la concentrazione delle risorse. Una  volta raggiunti questi risultati – ma si tenga presente che, nel caso inglese, ci sono voluti quasi vent’anni di RAE, diventa importante assicurare la proporzionalità, nonché l’appropriatezza, del sistema di valutazione: c’è un consenso pressoché universale, fra coloro che hanno partecipato a quest’ultima RAE, che il consumo di tempo e di risorse amministrative richiesto dall’attuale format sono assolutamente sproporzionati rispetto al beneficio in termini di governance, e che le metriche di valutazione non sono certamente le migliori per assicurare che un sistema universitario finalmente “szavorrato” da sperchi e inefficienze possa utilizzare al meglio i talenti dei propri ricercatori per conseguire la desiderata eccellenza internazionale nella ricerca e nella didattica.