Dall’osservatorio privilegiato di uno degli atenei “virtuosi”, appartenente al consorzio Aquis (Associazione per la qualità delle università italiane statali), il rettore dell’Università degli Studi della Calabria Giovanni Latorre giudica positivamente, dicendosene «entusiasta», alcune delle norme contenute nel decreto Gelmini, dopo le modifiche apportate in Commissione Istruzione al Senato.



Professor Latorre, la novità più significativa contenuta nella nuova versione del decreto 180 riguarda gli scatti per i docenti, non più automatici ma legati all’accertamento dell’attività scientifica: cosa ne pensa?

Innanzitutto bisogna precisare all’opinione pubblica una cosa importante e non nota: la carriera universitaria è l’unica che prevede complessivamente ben sei passaggi, tra concorsi e paraconcorsi. Si diventa ricercatori attraverso un concorso; poi c’è la conferma, per la quale bisogna presentare le pubblicazioni fatte dopo la nomina a ricercatore; quindi si diventa associati con un altro concorso, e c’è la relativa conferma con la presentazione dei titoli; infine per diventare ordinario c’è un altro concorso, e ancora la conferma dopo tre anni. Quindi, anche allo stato attuale, non è assolutamente vero che la carriera sia automatica: nessun’altra carriera statale è soggetta a ben sei momenti di verifica. I magistrati, ad esempio, vincono il concorso di magistratura e poi non hanno ulteriori concorsi.



Quindi era utile o no una norma di questo genere?

Fatta salva la premessa, la norma che è stata approvata trova non solo il mio personale favore, ma anche il favore di tutta l’accademia italiana. Noi da sempre reclamiamo la verifica, la valutazione, e quindi la premialità conseguente alla maggiore produttività. Quindi sono favorevole, a patto però che si chiarisca che i docenti universitari sono di gran lunga – rispetto a qualunque altra carriera statale – i più soggetti alla verifica della loro capacità di mantenere il ruolo a livelli di merito. Ciò detto, ripeto, le modifiche apportate al decreto su questo aspetto mi trovano non solo d’accordo ma addirittura entusiasta, perché spero che alla valutazione possa corrispondere poi anche il giusto premio, per coloro che saranno all’altezza.



Veniamo alle norme sugli atenei: si parla di un diverso trattamento tra atenei virtuosi e quelli che invece non hanno i conti in regola. È così?

Sì, e in linea di massima sono d’accordo anche su queste altre norme. Sono d’accordo perché anche qui viene dato spazio a una logica premiale che giustamente deve riconoscere un premio agli atenei che sono stati in grado di gestirsi bene, grazie a scelte oculate. È solo attraverso questa sorta di simulazione del mercato, infatti, che si possono ottenere incentivi veri. Ma anche in questo caso c’è un però.

Quale?

C’è il problema che in Italia il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) negli ultimi dieci anni è rimasto sostanzialmente inalterato. In termini di valore reale, anzi, è anche diminuito, tenendo conto del fatto che i costi del personale sono aumentati molto più velocemente del FFO. È per questo che  la spinta a diventare università non virtuose è stata in parte determinata da scelte non rigorose, ma in parte sempre più cospicua anche dal fatto che gli atenei si sono trovati in difficoltà a gestire costi che aumentavano molto più velocemente delle entrate. È stata una sorta di deriva difficilmente controllabile, legata alla diminuzione del valore reale dei fondi. Si tenga conto che l’Università della Calabria è una delle università cosiddette virtuose, per cui non parlo da un soggetto che si trova svantaggiato da queste regole; però mi metto anche dalla parte dei tanti rettori che magari hanno fatto scelte oculate, e nonostante ciò si trovano oggi a dover fronteggiare bilanci in pericolo per le cause di cui si diceva.

Come uscire allora da questa situazione?

Facendo in modo che queste politiche premiali siano realizzate tramite l’utilizzo di risorse aggiuntive, e non sottraendo risorse ad alcuni – che sono già sull’orlo del collasso – per darle ad altri atenei. Così si realizza solo una guerra tra poveri. Trovare risorse aggiuntive da distribuire in termini premiali: questa deve essere la logica.

C’è stata una revisione anche del blocco del turn over…

Diciamo pure che c’è stata una marcia indietro del governo, con il passaggio dal 20% al 50% del turn over, perché molto probabilmente si sono accorti di avere sbagliato. E aggiungo che secondo me il problema rimane, anche con il blocco al 50%. Interrompere l’immissione in ruolo, non garantendo nemmeno la copertura delle posizioni già esistenti all’interno delle università, significa da una parte sbattere la porta in faccia ai tanti giovani che si sono impegnati dopo la laurea con un dottorato, un assegno di ricerca o un post-dottorato, che oggi si ritrovano la strada sbarrata e che inevitabilmente perderemo perché diventeranno ricercatori in altri paesi; dall’altra parte, ed è la cosa più grave, questo Paese, che ha un numero di ricercatori tra i più bassi in Europa, anziché porsi l’obiettivo di aumentarli punta a diminuirne il numero. Ed è una cosa inaccettabile.

Guardiamo oltre le norme contenute nel decreto: in una prospettiva di riforma a lungo termine, quali sono secondo lei le priorità di cui tenere conto?

La priorità per il rilancio del sistema universitario è duplice: finanziamento e valutazione. La spesa per l’università, sia come spesa per studente, sia come frazione di prodotto interno lordo, descrive un’Italia che, comparata con quella di tutti i paesi con i quali dobbiamo competere, investe poco sulla ricerca e sull’università. Quindi ci vogliono certamente maggiori investimenti. Naturalmente il maggiore investimento deve essere accompagnato da rigorose misure di valutazione dell’uso che si fa delle risorse investite. Questa è una richiesta che da anni viene fatta dalle università e dalla Crui:  un sistema di valutazione che possa consentire l’allocazione di risorse aggiuntive in modo premiale, attribuendole agli atenei, ai dipartimenti e ai singoli ricercatori che danno buona prova di sé.