Anche per il rettore dell’Università di Milano Bicocca, Marcello Fontanesi, la nuova versione del decreto Gelmini contiene novità condivisibili. «Un passo avanti nella giusta direzione», sebbene ci siano ancora alcuni aspetti da rivedere.

Professor Fontanesi, alcune delle nuove norme sull’università sono state definite “anti-baroni”, perché obbligano i professori a rendere conto di quello che fanno se vogliono scatti stipendiali. È d’accordo con queste norme?



Legare gli scatti al merito rappresenta qualcosa di positivo, utile anche per eliminare una serie di considerazioni critiche nei confronti della carriera dei docenti universitari. Il problema è che le pubblicazioni rappresentano solo uno degli aspetti del merito. Sarebbe meglio infatti cercare di legare la carriera alla produttività in senso più ampio, comprendente le pubblicazioni, i brevetti, i contratti di ricerca che un docente porta alla propria università, a livello nazionale e internazionale. C’è poi anche la produttività nel settore della formazione, perché non dobbiamo dimenticare che oltre alla ricerca abbiamo come compito istituzionale importante quello della formazione; e poi ci sono anche i compiti amministrativi, organizzativi. Io credo che l’impostazione corretta sarebbe dunque quella di legare la carriera alla produttività in questo senso più ampio. Sicuramente le pubblicazioni sono, anche nell’immaginario collettivo, il prodotto più appariscente dell’attività universitaria; ma non è l’unico.



E poi c’è anche il fatto di capire quanto valgono le pubblicazioni prodotte…

Certo, bisogna anche valutare attentamente la qualità delle pubblicazioni. L’altro giorno guardavo il curriculum di una persona che negli ultimi anni ha pubblicato una cosa come 200 articoli; al che mi sono domandato quando avrà avuto il tempo di leggerli! Bisogna dunque vedere il valore che hanno queste pubblicazioni; per fare questo bisogna raffinare il criterio di valutazione, andando ad esempio a vedere il numero di citazioni (impact factor). Un ricercatore può scrivere una pubblicazione sola e diventare premio Nobel; un altro ne può fare mille senza che nessuno se ne accorga. Detto questo, ribadisco comunque che parlare di merito e di produttività per valutare il contributo che un docente dà alla propria istituzione mi sembra una cosa ragionevole e condivisibile.



Appena approvata la legge 133, i rettori si sono scagliati contro il governo, criticando con vigore tagli definiti non solo pesanti, ma per di più indifferenziati. Ritiene che le modifiche che hanno introdotto trattamenti diversi per gli atenei siano una buona risposta?

Da un po’ di tempo c’era un numero consistente di rettori che – a parte la questione dei tagli – chiedevano che si entrasse nel merito dei finanziamenti. I tagli sono stati un’ulteriore spinta in una certa direzione; ma l’invito fatto più volte ai ministri era di entrare nel merito della ripartizione dei fondi. Si richiedeva che il modello utilizzato dal ministero per ripartire il finanziamento ordinario dell’università venisse rivisto considerando con un peso maggiore i comportamenti, cui già si accennava, del merito e della produttività. Il fatto che ci siano delle università con i conti in rosso, o che abbiano superato il tetto del 90% di spesa di personale rispetto al tetto del fondo di finanziamento ordinario, certamente rappresenta un fatto negativo, su cui è doveroso intervenire.

E infatti si è intervenuto, anche differenziando il discorso del blocco del turn over.

Eliminarli dal turn over non è corretto; era più opportuno lasciare le risorse del turn over per poter aggiustare i bilanci, impedendo naturalmente di spenderli per fare ulteriori concorsi. Il fatto del taglio del turn over, del togliere risorse in una situazione come questa, è una scelta che secondo me  non spinge nella direzione del miglioramento del sistema. Perché a chi stava operando bene, si portano via comunque delle risorse; a chi stava lavorando male, portar via le risorse rende ancor più difficile la possibilità che rimettano a posto i conti. Se uno deve rientrare col bilancio e deve cercare di recuperare, per esempio, sulla percentuale di spesa degli stipendi, non migliora con una riduzione delle risorse, ma semplicemente impedendo che per un certo periodo queste vengano investite in personale. Comunque, a parte queste precisazioni, direi che il giudizio generale è positivo, perché si intravede il tentativo da una parte di incentivare coloro che hanno comportamenti corretti, e dall’altra, se non proprio castigare, quantomeno di richiamare all’ordine in maniera concreta, e non con una semplice ramanzina, gli atenei che hanno sperperato. Mi sembra che sia un passo in avanti nella direzione giusta.

Cosa ne pensa del comportamento tenuto dagli studenti negli ultimi mesi?

Mi pare giusto che gli studenti si preoccupino di come funziona l’università, e anche della maniera con cui il governo prende decisioni su questo. Anzi, più che preoccupati, devono essere interessati a questo, perché sono loro ad essere i principali fruitori di questo servizio. Ma devono essere attenti anche come futuri cittadini: l’università rappresenta un valore importante dal punto di vista della cultura, della trasmissione delle conoscenze, della produzione dell’innovazione, e soprattutto rappresenta il luogo per eccellenza dove c’è la libertà di ricercare, di dibattere, di discutere e di confrontarsi. Come futuri cittadini hanno tutto l’interesse a far sì che questa istituzione continui a funzionare e funzioni sempre meglio, portando avanti il proprio compito di ricercare, di formare, di trasmettere all’esterno le proprie competenze sottoforma di innovazione, e nello stesso essere un luogo di libertà, di ricerca della verità, di dibattito.

Però ci sono state anche forme di protesta francamente discutibili, come quelle all’inaugurazione dell’anno accademico a Roma.

La modalità con cui questa attenzione si esprime può essere diversa; certo, la contestazione fatta a Roma durante l’inaugurazione dell’anno accademico è stata un gesto di violenza sbagliato, e che non porta a nessun contributo positivo. Quello che devo notare, però, è che a differenza di quello cui ho assistito quando ero giovane con la contestazione degli anni ’70, ora la maggior parte dei giovani ha affrontato la questione con molta più responsabilità. Si sono dimostrati preoccupati e desiderosi di conoscere quello che succede e di dare il proprio contributo, in maniera più riflessiva e responsabile. La protesta violenta è stata limitata a una percentuale minoritaria di ragazzi; la maggioranza di loro mi sembra riposabile e attenta a ragionare, più che a fare confusione.

Per concludere, una domanda quasi di rito: qual è secondo lei la priorità per riformare il sistema universitario?

Per prima cosa penso si debba far chiarezza su come vanno reclutati i giovani da inserire all’interno dell’università, perché essi rappresentano il futuro. Poi è fondamentale la valutazione, perché è la base su cui si gioca tutto il resto. L’autonomia dell’università senza valutazione diventa anarchia; la responsabilità delle decisioni non c’è se queste non vengono poi valutate; l’obiettività e la trasparenza nei concorsi non sarà mai data da leggi sempre nuove, ma dalla valutazione su come si sono scelte le persone e sui risultati che hanno ottenuto. Io credo che la valutazione, se fatta seriamente, sia l’unico modo per risolvere molti dei problemi che noi abbiamo nell’università. Purtroppo il nostro Paese, in generale e non solo per quanto riguarda il mondo accademico, ha una scarsa cultura della valutazione, anche perché la lega a un concetto generico di punizione; mentre la valutazione è qualcosa che deve spingere a migliorare sempre di più quello che si fa. Deve essere un incentivo, una spinta al miglioramento in sé, al di là del semplice aspetto del premio e della punizione.