La responsabilità dell’educare
Educare è la responsabilità principale che i genitori e le società hanno nei confronti dei figli e dei cittadini futuri. Senza educazione non c’è futuro, non c’è Paese. Per questa ragione lungo la storia delle società umane i sistemi educativi sono stati costruiti e continuamente modificati.
Il nostro sistema educativo nazionale opera in contraddizione crescente con le promesse e con i fini istitutivi che gli sono stati assegnati. Esso è sempre meno in grado di proporre alle giovani generazioni strumenti ed esperienze per introdursi alla realtà totale.
Di tale incapacità è sintomo il “mal di scuola”, che tocca in modo diverso, ma convergente, gli studenti, i genitori, gli insegnanti, i dirigenti. Le scuole e le università si stanno trasformando da centri di cultura e di educazione in cosiddetti campus di socializzazione e di parcheggio di un’adolescenza lunga e irresponsabile e di una giovinezza che procrastina indefinitamente l’ingresso nella cittadinanza attiva e nel lavoro. Ben lungi dall’accompagnare i ragazzi verso il mondo, verso la storia umana e la fioritura di sé, in una parola verso la realtà, le scuole sembrano costruire artificialmente un’intercapedine di vuoto tra la libertà dei singoli e il mondo reale, con cui libertà e responsabilità si devono misurare per diventare effettive e per crescere.
Ai sistemi educativi costruiti dagli Stati già dall’Ottocento e sviluppatisi lungo tutto il Novecento, erano state affidate tre finalità costitutive: divenire strumento di eguaglianza e di equità sociale, promuovere la mobilità sociale, fungere da motore dello sviluppo economico, sociale e civile. In quello schema, è lo Stato che educa/istruisce: esso trasforma la “persona” in “cittadino” e lo plasma secondo le necessità storiche dello Stato-nazione. Il sistema educativo venne costruito quale apparato centralistico e universalistico, ideologico, culturale, amministrativo, pedagogico, didattico. Il sapere umano fu organizzato in discipline codificate, poi trasformate in materie – somministrate in quantità regolari e programmate in modo omogeneo su scala nazionale – e in corrispondenti cattedre e classi di concorso degli insegnanti. Le classi scolastiche sono unità amministrative, formate su basi biografiche, che devono funzionare forzatamente quali unità didattiche. È lo “stato etico”, che, per quanto riguarda l’Italia, prima si è presentato nella forma liberale e poi in quella fascista. Con la caduta del fascismo l’eticità dello Stato è passata nello Stato amministrativo. Nella scuola questo ha comportato la continuità del monopolio di Stato e dell’esclusione della famiglia quale soggetto decisivo del processo educativo. Tutto ciò si è realizzato nella forma di una schizofrenia tra l’educare – quale compito della famiglia e della Chiesa – e l’istruire – quale compito dello Stato. La gestione cattolico-democristiana dello Stato nel dopoguerra non ha essenzialmente cambiato l’assetto di fondo del sistema.
Per tutta la fase della seconda rivoluzione industriale e del welfare state, i sistemi educativi di Stato, centralistici e omogenei, hanno svolto in modo eccellente i compiti loro assegnati, portando grandi masse verso l’alfabetizzazione – nel 1861 l’85% degli italiani era analfabeta – e avviando la scolarizzazione superiore di massa, cui ha dato un impulso decisivo in Italia l’istituzione della Scuola Media unica nel 1962.
Ma dalla seconda metà del Novecento, con l’avvento della scuola di massa e in corrispondenza con l’avvio tumultuoso della terza rivoluzione industriale fondata sull’economia della conoscenza, il sistema educativo costruito in Italia da Giovanni Gentile è entrato in una crisi profonda e irreversibile, essendo incapace di passare dalla “scuola di tutti” alla “scuola di ciascuno”, di dare nuove risposte alle nuove domande poste dallo sviluppo della coscienza di libertà delle persone, di semplificare e rendere più flessibile il sistema. Il sistema educativo nazionale si è progressivamente trasformato in una grande macchina dissipativa. Il “mal di scuola” nasce da qui, come “non senso” per gli studenti, come soffocamento della professionalità degli insegnanti, come fuga dalle responsabilità educative per i genitori, che oscillano tra assenteismo, impotenza e saltuarie velleità di intervento, talora invasivo.
Il sistema educativo è ancora trasformabile o dobbiamo rassegnarci a un rapido declino del sistema educativo e a quello conseguente del Paese?
Sulla risposta a questa domanda pesano cinquant’anni di gestione amministrativa-sindacale del sistema educativo, in forza della quale il Ministero dell’Istruzione ha funzionato quasi esclusivamente come Ministero dell’impiego statale di forza-lavoro intellettuale, non preparata, non valutata, senza carriera e senza professionalità, regolata dall’anzianità di servizio quale unico criterio di avanzamento. La politica ha delegato all’Amministrazione e al sindacato i propri compiti.
Nel decennio 1996-2006 prima Luigi Berlinguer e poi Letizia Moratti hanno proposto imponenti progetti di riforma, che sono stati realizzati solo in parte, a causa del reciproco assedio di un bipolarismo aggressivo, teso alla delegittimazione a priori dell’avversario, e di una forte pressione del blocco storico conservatore trasversale, impastato di ideologia statalista e di interessi corporativi, che si è consolidato nel corso dell’ultimo cinquantennio. L’ultima legislatura ha visto il Ministro dell’Istruzione mettere sotto accusa “la riformite”, prendere atto che le riforme erano impossibili e perciò inutili e teorizzare che bastavano pochi e ben assestati aggiustamenti del buon vecchio sistema. Questo conservatorismo esibito quale nuovo programma politico è con tutta probabilità il lascito psicologico e culturale peggiore che la legislatura appena conclusa consegna a quella successiva.
Così sul personale della scuola, sugli studenti, sulle famiglie e sull’opinione pubblica è calata una cappa immobile di disperazione quieta circa le possibilità di cambiamento di un sistema educativo, che non è in grado di reggere le sfide del mutamento antropologico delle nuove generazioni, dell’economia della conoscenza, della Knwoledge integration, del sapere vivente, del sapere che si fa vita e che prende senso nel rapporto con la realtà, del Lifelong&Lifewide Learning (apprendimento lungo tutto l’arco della vita in tutti gli ambiti della vita).
I principi del cambiamento

1. Educare significa aprire la mente, la ragione e il cuore alla realtà. Educare è far crescere l’amore alla verità, come il terreno più proprio sul quale costruire la libertà e la responsabilità di ciascuno nel suo stare nel mondo. La scuola educa istruendo.
Occorre partire da un fatto irriducibile, che è un’evidenza originaria: «Tutti gli uomini per natura desiderano sapere». Questo desiderio si fonda sullo stupore originario, sulla meraviglia, allorché un essere umano apre il primo sguardo sul mondo. È un dato antropologico e biologico irrefutabile che la moderna ricerca delle neuroscienze sta quotidianamente evidenziando: che il cervello umano si è sviluppato lungo tutto l’asse dell’evoluzione umana per apprendere. Il cervello tende all’apprendimento, così come i piedi a camminare, le mani ad afferrare, gli occhi a vedere. La sete di conoscenza propria di ogni uomo, prima ancora di specializzarsi nei singoli ambiti, tende ad una sintesi in cui quello che si fa o che si deve fare è connesso a una ipotesi globale di significato. Esiste una naturale “sensibilità alla verità”, cioè alla conoscenza della realtà in tutti i suoi aspetti. «Educare istruendo» non significa giustapporre due operazioni: istruire e a lato fornire estrinsecamente una tavola di valori e di giudizio. Educare consiste, in prima istanza, nel far conoscere il mondo e nel far maturare un giudizio sul mondo. Ora, se questa tensione desiderante verso la conoscenza non si sviluppa, se la scientia diventa tristitia, come ha ricordatoBenedetto XVInel mancato discorso all’Università La Sapienza, citando sant’Agostino, se «gli apprendimenti sono divenuti tristi», e perciò insensati per i ragazzi, bisogna interrogarsi sugli ostacoli che vengono frapposti dai sistemi socio-culturali e dai “sistemi esperti” educativi.
Perché il sapere e gli apprendimenti sono divenuti tristi? All’origine sta “la crisi dei fondamenti” del primo Novecento che si è diffusa dall’epistemologia alla filosofia, alla cultura, all’opinione pubblica fino a divenire senso comune e sguardo quotidiano sul mondo. L’atto della conoscenza è avvolto da una nebbia scettica, “la sensibilità verso la verità” è sommersa e resa ottusa da una congerie di informazioni, immagini, sensazioni, che si assestano in puzzle provvisori e cangianti nella mente e nel cuore dei ragazzi. Pertanto le discipline/materie hanno cessato di essere finestre sulla realtà e fattori costruttivi di personalità.
Con questa causa profonda si intrecciano le dinamiche dei sistemi di welfare. Questi sistemi sono stati costruiti e perfezionati nel corso del ‘900, a partire dalla concezione generale del welfare come welfare di stato. Al centro sta l’offerta statale dei servizi presupposti in armonia prestabilita con i bisogni e le domande della persona, preventivamente ridotta alla dimensione di “cittadino di stato”. Il sistema di welfare statale ha finito per rendere l’offerta omogenea, rigida, a costi crescenti, a causa in primo luogo della riproduzione allargata della burocrazia dei servizi educativi, sanitari, socio-assistenziali. L’attuale organizzazione dei sistemi educativi è divenuta un ostacolo all’educare/istruire.
Perciò è necessario battersi contro culture nichiliste e per una diversa organizzazione dei sistemi educativi. In primo luogo, occorre «perforare le immagini del clima culturale in cui si è immersi» (don Giussani, 1958), quello della “vulgata nichilista”. In secondo luogo, occorre far conoscere ed elaborare esperienze di comunità educanti esistenti, che facilitano apprendimenti “felici” per i ragazzi.Una minoranza creativa, fortunatamente molto consistente, di insegnanti animati da passione educativa e decisi a svolgere fino in fondo il proprio compito si aggrappa ogni giorno alla possibilità dell’educare/istruire, che è originariamente data al singolo insegnante, quale che sia la condizione ambientale e di sistema in cui si trova. Ma questa posizione generosa è resa meno efficace e alla fine impotente dal fatto che in una scuola non è solo il singolo insegnante motivato che educa, ma l’insieme della comunità professionale e l’ambiente complessivo. La tradizione e l’immagine che le scuole hanno di sé – soprattutto quelle “storiche” – determinano fortemente l’atmosfera educativa in cui docenti e studenti sono immersi. E proprio l’esigenza di non arrendersi all’atmosfera dominante richiede che si faccia i conti fino in fondo con “l’ambiente”, abbandonando l’illusione di rinchiudersi nelle proprie classi. A questo si deve aggiungere l’esistenza di un sistema socio-educativo amministrativamente pervasivo che, in assenza di una battaglia culturale esplicita, condiziona gli esiti complessivi finali di ogni singola scuola. Ma già oggi, esperienze in atto su tutto il territorio nazionale testimoniano che una compagnia educativa di insegnanti impegnati a fondo con le proprie classi, può far nascere un’assunzione di responsabilità più generale per il proprio istituto, per il proprio territorio, per la scuola nel suo complesso e generare una nuova cultura politica della scuola.



2. I genitori sono i protagonisti dell’educazione/istruzione. I genitori sono i committenti del servizio educativo rispetto alla società e allo Stato. Lo Stato deve esercitare una funzione sussidiaria.
L’articolo 30 della Costituzione italiana recita:«È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio».
L’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umaniafferma: «L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali […]. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli».
È questo il principio ispiratore di ogni nuova politica possibile. La forza motrice dell’innovazione del sistema educativo nazionale è rappresentata dalla “libertà di scelta dei genitori” e dalla possibilità loro data di cambiare la leadership, di far chiudere le scuole che non funzionano, di istituire nuove scuole.
L’esercizio concreto di tale libertà è possibile a due condizioni.
La prima è che i genitori debbono poter disporre preventivamente di tutte le informazioni necessarie e sufficienti sulla qualità e sull’efficienza ed efficacia dell’offerta educativa/formativa delle scuole. Le informazioni devono essere fornite direttamente da ogni singola scuola, chiamata a render conto ai genitori e ai cittadini che, attraverso la fiscalità generale, finanziano il servizio educativo. Esse devono riguardare il “Progetto dell’offerta formativa” (POF), il “Piano educativo individualizzato” (PEI), gli esiti post-scolastici sia nei cicli superiori, sia nelle università sia nel mercato del lavoro. A sua volta il Servizio nazionale di valutazione – quale Authority terza tra lo Stato e le scuole – deve costruire, sulla base di standard nazionali e di indicatori, una valutazione su scala nazionale e territoriale delle scuole e una graduatoria pubblica delle medesime, stilata sulla base della misura del valore aggiunto – misurato al netto delle condizioni socio-economiche e culturali di ingresso – che ogni scuola sia capace di produrre.
La seconda condizione è che i genitori non debbano sostenere spese aggiuntive, qualora scelgano le scuole paritarie. Il solo pagamento delle tasse, mediante la fiscalità generale, dà diritto ai genitori di scegliere il provider dei servizi educativi, quale che ne sia la natura giuridica (pubblico o privato, statale o non statale), liberi di scegliere la scuola che ritengono migliore per i propri figli. Attualmente, la parità garantita sul piano giuridico dalla legge n. 62 del 2000 di Luigi Berlinguer non è ancora divenuta parità economica. Così che il risultato paradossale cui è approdato il sistema è che le famiglie pagano due volte la scuola dei propri figli. Le famiglie sono sussidiarie dello Stato, non viceversa! Tutte le famiglie devono essere provviste di una dote per l’educazione, da spendere nell’istituzione scolastica a loro scelta.



3. È necessario un assetto istituzionale, ordinamentale, culturale, professionale e organizzativo del sistema educativo che faciliti la relazione educativa e perciò il pieno dispiegamento della tensione di ciascun ragazzo all’intelligenza totale del mondo.
È un passo necessario ed è possibile.
È necessario, perché il sistema educativo italiano sta andando al collasso: tutte le indagini internazionali e nazionali convergono su questo giudizio. Collasso, nel senso che le scuole sono sempre meno centri culturali e educativie sempre più luoghi di socializzazione povera. La posta in gioco è semplicemente il destino delle giovani generazioni e quello del Paese. L’emergenza educativa è ormai sul tavolo pubblico. L’attuale sistema educativo non prepara né uomini né cittadini né lavoratori e professionisti. Perciò pare assai difficile che il nostro Paese possa dare un contributo creativo all’itinerario che fin dal 2000 la riunione dei capi di governo dell’Unione europea ha tracciato a Lisbona «verso la più forte economia al mondo, fondata sulla conoscenza». Il rapporto europeo di medio-termine conferma il ritardo dell’Europa, cui contribuisce gravemente quello dell’Italia.
È possibile, perché molti Paesi europei e l’Unione europea hanno già incominciato da tempo, dalla fine degli anni ‘80, a muoversi sulla strada di una revisione profonda dei sistemi educativi otto-novecenteschi: Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, i Paesi dell’Est, in particolare la Polonia, i Paesi scandinavi, la Finlandia. La ragione fondamentale è che questi Paesi dispongono di sistemi politici e di governi in grado di prendere decisioni. Perciò hanno incominciato a fare riforme che favoriscono la libertà di scelta dei genitori, la decentralizzazione dei sistemi, la valutazione esterna, le carriere degli insegnanti, la definizione di curricula nazionali agili e essenziali. Su questa strada si era mossa, tra mille ostacoli e qualche oscillazione, Letizia Moratti dal 2001, recependo suggerimenti e best practices europee. L’interruzione del processo di riforma nel 2006 non si deve solo alle alterne vicende della politica, ma anche a una forte resistenza dall’interno delle scuole e di larghi settori di opinione pubblica, cui i mass-media danno espressione e linee-guida. Si tratta di una resistenza culturale, ispirata al “pensiero unico” gentiliano e statalista, attestato sul centralismo, sull’egualitarismo burocratico, sulla conservazione sindacale del numero di materie e di cattedre, sul principio di anzianità per gli insegnanti. Secondo questo pensiero non è la famiglia il protagonista principale dell’educazione, è lo Stato. Lo Stato etico-amministrativo sa ciò che è meglio per i ragazzi. Ogni riduzione del numero abnorme di ore, materie, cattedre, giorni e anni è stato considerato «privatizzazione familistica del curriculum».



Proposte per il cambiamento

Il sistema educativo nazionale deve essere ridisegnato attorno ai ragazzi, ai genitori, agli insegnanti, ai dirigenti, al territorio, così da consentire ai ragazzi lo sviluppo dei loro personali talenti, ai genitori il pieno e libero esercizio della responsabilità educativa, agli insegnanti e ai dirigenti la costruzione di una relazione educativa efficace e l’esercizio di una libera professionalità, al territorio le risposte socio-economiche alla domanda di sviluppo e di occupazione.
Il punto cruciale di intersezione tra famiglia e istituzione scolastica è una persona in evoluzione. Solo se la scuola è per ciascuna persona, può essere concretamente per tutti.
Qui proponiamo le linee essenziali di questo ridisegno. Esse non nascono da un progetto astratto di riforme da sovrimporre alla realtà della scuola, bensì dalle necessità degli studenti, dei loro genitori, degli insegnanti, delle imprese.

(…)


Aristotele, Metafisica, Libro I.
G. Fioroni, Commissione Istruzione della Camera, seduta del 29 giugno 2006.