L’assunzione in ruolo dei precari: per il Pd è importante proseguire con il piano delle assunzioni, per il Pdl invece bisogna distinguere, attribuendo il 50% delle assunzioni ai precari, e l’altro 50% ai giovani neolaureati. Cosa ne pensa?

La scuola ha certamente bisogno di alimentare il suo corpo docenti con l’assunzione di giovani, e contemporaneamente deve cancellare un’esperienza profondamente negativa come quella del precariato. Quindi si tratta di due bisogni primari, ma che apparentemente parrebbero in conflitto tra di loro. Io credo che in entrambi i casi la questione debba essere risolta radicalmente e non con misure palliative; tutto ciò che si fa ora deve venire dopo la soluzione radicale, altrimenti non si fa altro che prorogare il male. La questione del precariato è certamente una questione socialmente rilevante; ma il problema di fondo non è sociale (cioè di attenzione a chi soffre per mancanza di stabilità), ma sta nel fatto che la condizione di precario e la forma di reclutamento attraverso le graduatorie è nociva alla scuola, oltre che al precario stesso. Allora io penso che sia opportuno chiudere subito questa partita. Come? Consolidando l’abolizione delle graduatorie. Proporre la questione in termini alternativi, se sia più giusto assumere il precario o il giovane, è sfuggire al problema principale.



Se si riuscisse effettivamente a risolvere la questione del precariato in questi termini, come favorire poi l’ingresso dei giovani nell’insegnamento?

Subito dopo, ripeto, bisognerà puntare sull’immissione dei giovani. Dev’essere affermato con nettezza un principio: non si può immettere nell’insegnamento coloro che non abbiano consolidato una preparazione professionale didattica di ciò che insegnano. E questa non può essere oggetto di lezioni solo teoriche. Bisogna che la didattica dell’insegnamento sia appresa attraverso un’estensione di ciò che impropriamente si chiamano tirocini. Poi naturalmente, dopo aver consolidato una preparazione in questo campo, occorrerà anche una valutazione per entrare a scuola a insegnare. Quindi sono due le fasi di valutazione: primo l’accesso al tirocinio e secondo il concorso a scuola.



Quindi bisogna riproporre ancora la forma del concorso?

Diciamo la forma di una prova d’accesso, perché se la chiamiamo concorso non ci capiamo. Una prova che sia in grado di valutare sia la preparazione disciplinare, sia l’esperienza didattica di tirocinio. Io sono infatti nettamente contrario ad una forma di solo concorso, che vanificherebbe di fatto la preparazione di tirocinio.

Entrambi i programmi parlano di carriera per gli insegnanti basata sul merito: ma come si attua concretamente, e con quali criteri, una carriera per gli insegnanti? Allo stato attuale è ancora una cosa tutta da inventare…

Prima una battuta: dov’erano tutti i signori che ne parlano quando io ci ho provato senza il sostegno necessario per introdurre una novità così radicale? Io mi sono sentito un po’ solo; ho commesso qualche errore, ma avevo ragioni da vendere.
Venendo alla questione in sé: non si può essere insegnanti allo stesso modo i primi due o tre anni di lavoro e gli ultimi cinque dieci anni di lavoro, perché anche l’esperienza didattica fa parte dell’arricchimento professionale. Non piace la parola carriera? A me sì. A chi non piace, si parli di una crescita professionale degli insegnanti verificata e riconosciuta, sia nella successiva funzione da svolgere, sia nello stipendio. Questo avviene in tutte le professioni e non capisco perché non debba avvenire nel mondo dell’insegnamento. Dove si fonda la presunzione sbagliata di chi è contrario alla carriera? Nell’idea che esista una sola funzione di insegnante, quella “ex cathedra”. Ma la scuola moderna, la comunità educante, prevede anche diverse figure: dal coordinatore di un dipartimento disciplinare dentro la scuola (per esempio il dipartimento di scienze), a colui che si occupa prevalentemente di discipline più teoriche, a tutta l’attività che si intreccia tra pratica e teoria e quindi alle forme organizzate di una scuola fatta di équipe e non solo di singoli. Quindi mi sembra molto importante che si preveda questo sviluppo professionale riconosciuto.



Come è possibile attuare concretamente questa nuova concezione del ruolo dell’insegnante?

Innanzitutto articolando meglio le funzioni di insegnamento e apprendimento, e introducendo le forme di collaborazione in équipe: non eliminando la funzione individuale di insegnamento, ma arricchendola anche con le altre componenti. Secondo, in base a questo prevedere diversi profili e in questi individuare le forme di crescita, e le funzioni che richiedono maggiore maturità. Terzo, una verifica periodica dei risultati dell’apprendimento. Non confondiamola, come io erroneamente forse ho prospettato (nella sua forma operativa, non nell’idea originaria) con un esame periodico agli insegnanti: occorre una periodica verifica dei successi dell’apprendimento.

Quindi una verifica da fare sugli studenti?

Sul rendimento degli studenti, prima di tutto, ma anche sulle forme organizzate della gestione dell’autonomia da parte delle équipe. Queste verifiche non hanno il carattere odioso di fare l’esame agli insegnanti, ma di chiedere loro di autovalutarsi e di lasciarsi valutare nel successo che hanno conseguito, provocano delle condizioni di migliore valutazione delle capacità e degli intenti.
Attenzione: va valutato l’apprendimento, definendo il punto di partenza e il punto di arrivo. Un insegnante potrebbe infatti dire: “ma se mi vengono tutti alunni sbadati e ignoranti, che colpa ho io se non hanno grande successo?” Il metro di giudizio è differenziale, fra uno zero non assoluto uniforme nazionale, ma zero al punto di partenza di quella classe. Il valore aggiunto non è un traguardo astratto, perché è chiaro che non è colpa dell’insegnante se arriva una classe particolarmente svantaggiata.

Parità scolastica: il Pdl dice “finanziare le famiglie, non le scuole”; il Pd dice no a “finanziamenti che prevedano quote pro capite per studenti”. La partita, dunque, si gioca tutta sul sì o il no al buono scuola?

Io sono ancora convinto che ciò che io feci, in particolare la legge 62 sulla parità, sia ancora una cosa giusta; il punto è che non viene attuata. Non si avrà risposta univoca finché non ci sarà una decisione giurisdizionale sull’articolo 33 della Costituzione, terzo comma: il ben noto «senza oneri per lo Stato». Noi non sappiamo quale sia l’interpretazione più giusta: c’è chi dice in un modo, c’è chi dice nell’altro. Ma questo è un capitolo che va assolutamente chiuso. E deve interpretarlo la Corte Costituzionale e nessun altro: non importa che lo interpreti un costituzionalista, o un altro costituzionalista, oppure un attivista di una parte o un attivista dell’altra. Diranno la loro legittima opinione, ma non sono i giudici di quella legge; c’è un solo giudice delle leggi in Italia, e si chiama Corte Costituzionale.
Al momento c’è chi dice che si possono aiutare le scuole private anche direttamente, e chi dice che non si può. Per uscire da questa diatriba giuridica, e ideologica, io ritengo che intanto sia importante il sostegno alla scuola per l’infanzia, perché in questo campo c’è effettivamente una condizione che abbiamo risolto con quella legge. Secondo, fare leva sul diritto allo studio, che è specificato nell’articolo 34: esso riguarda tutti, senza distinzione tra pubblici o privati.
Detto questo, io continuo a pensare che lo scontro tra pubblico e privato tutto sommato sia ancora abbastanza artificioso: non è il primo problema della scuola italiana, anche se alcuni lo erigono a quel livello. Si è portata avanti una battaglia aprioristica, che ha contribuito a lasciare tutto com’è, purché sia pubblico; e questo io non lo accetto. Ha nuociuto alla scuola pubblica.

Passiamo al tema fondamentale dell’autonomia: entrambi i programmi spingono molto su questo versante. Pensa che da entrambi gli schieramenti ci si possa aspettare uguale impegno (o nessun impegno…) su autonomia gestionale, reclutamento docenti, coinvolgimento di soggetti privati a livello territoriale (magari tramite un Cda, o la trasformazione delle scuole in Fondazioni)? Perché sono questi, in concreto, i cardini di una vera autonomia.

L’autonomia, a mio modo di vedere, riguarda soprattutto i contenuti e i metodi dell’insegnamento, ciò che si insegna e come si insegna, e quindi il rendimento dell’apprendimento. La scuola deve strutturarsi autonomamente nella forma di una comunità educante che si pone come problema principale che i ragazzi e i bambini apprendano di più e al meglio delle loro forze, per realizzare la scuola dell’equità e della qualità insieme, cioè di includere tutti ma di ottenere il massimo rendimento. Bisogna cioè porsi il problema di sostenere fino in fondo i talenti che sono trascurati, ma anche di evitare l’esclusione, coinvolgendo, spingendo a studiare e al contempo allettando, attraendo gli studenti allo studio nelle forme più moderne. Anche il piano dell’offerta formativa deve riguardare minimamente i progetti aggiuntivi, per concentrarsi invece sull’organizzazione dell’insegnamento. L’autonomia consente, all’interno di indicazioni curriculari nazionali comuni a tutto il Paese, una forte articolazione del modo in cui le diverse discipline vengono insegnate, e restituisce ai docenti un ruolo primario, che prima non potevano avere. Non ci può essere solo la trasmissione del sapere elaborato all’università, è necessaria anche la ricerca didattica, cioè la sperimentazione di quali sono i metodi didattici che funzionano.

Ritiene cioè necessario far in modo che l’autonomia porti a un cambiamento delle tecniche di insegnamento?

Le rispondo con un esempio: se un viaggiatore dell’Ottocento girasse per una città italiana, non riconoscerebbe quasi nulla, né del modo dei trasporti urbani, né dell’urbanistica, né del tipo di traffico, né persino ormai della consistenza urbana: non riconoscerebbe niente, se non una piccola parte del centro storico. Quando entrasse in una classe troverebbe la classe di quando lui era bambino, di quando vi avevano studiato i propri figli: la cattedra, il banco, le mura. Anche le discipline sono le stesse, e poi l’alternarsi di seconda ora, terza ora, quarta ora, la ricreazione e poi lo sciamare alla fine delle lezioni: identico.
Non c’è niente che sia rimasto fisso e identico come a scuola. Oggi le necessità e le forme dell’apprendimento sono completamente cambiate. La comunità educante deve invece darsi la propria forma organizzata nuova. Ad esempio, in certe occasioni si riuniscono dieci ragazzini a parlare in inglese tra di loro o a fare un esperimento in laboratorio; in un altro momento si riuniscono invece trenta ragazzini, per una lezione di storia. Significa un organizzarsi in cui i docenti, il collegio, il preside dettano le regole e diventano centrali. La centralità del docente è nell’autonomia intesa come ricerca didattica; è questa la vera rivoluzione.

È d’accordo sul reclutamento diretto dei docenti da parte delle scuole?

Il reclutamento diretto totale oggi porterebbe ad avere due Italie, e in certe parti d’Italia avrebbe un carattere così clientelare da far tremare. È pericoloso totalizzare il reclutamento da parte delle scuole. Il successo della Finlandia e della Svezia è dovuto al fatto che sono i comuni a reggere le scuole, non lo Stato; se lo facciamo in Italia può succedere un disastro in alcune parti. Facciamo un esempio: nel caso in cui si faccia l’organico funzionale, consegnando ad una parte del corpo docenti funzioni di riorganizzazione dell’offerta didattica, sì che ciascun docente non sia rigidamente legato solo alla propria disciplina, allora è opportuno che una parte dei docenti vengano reclutato dalle scuole. Quindi io introdurrei gradatamente e parzialmente anche un aspetto di questo tipo.

Sul coinvolgimento invece dei soggetti privati?

Questo è stato un spauracchio che all’inizio ha fatto schierare il grosso del mondo della scuola contro l’autonomia. Io sono convinto che la differenza tra Nord e Sud, come emerso nell’indagine Ocse-Pisa, stia nel fatto che nel Nord il territorio circostante, la società civile, gli enti locali, hanno dato molto alla scuola, mentre nel Sud questo non è successo. Questa è una delle cause del maggior rendimento del Nord. L’autonomia scolastica è l’interfaccia delle autonomie presenti nella società. Faccio un esempio: noi stiamo lavorando per introdurre la musica nella scuola; se i conservatori o gli enti musicali o le scuole di musica o i cori, che sono tutti privati, non collaboreranno, la scuola non ce la farà. Nell’educazione scientifica altrettanto. Noi abbiamo bisogno dell’apporto di tutte le istanze sociali perchè la scuola cresca. Come si costruiscono le forme di collaborazione? Non tanto con l’ingresso dei privati negli organi della scuola (ed è questo lo spauracchio); si possono istituire convenzioni delle scuole con le altre istituzioni, stabilendo autonomie reciproche e reciproche collaborazioni.

Un’ultima domanda: sono possibili intese bipartisan sulla scuola?

Io sono contro l’idea che sul tema della scuola si rischi una sorta di “inciucio” tra maggioranza e opposizione, perché questo non è opportuno in una democrazia. Però ci sono sei o sette argomenti, nella scuola, che non appartengono in esclusiva a nessuno dei due schieramenti, mentre è possibile una convergenza. Secondo me oggi questo è più maturo che cinque o sei anni fa. Io ho sentito parlare e ho visto i programmi di centrodestra e di centrosinistra, e mi sembra che stia maturando oggi una cosa nuova: sta maturando l’idea per cui alcune convergenze sono possibili. Questo, bisogna dirlo, è merito dei dati Ocse-Pisa, che ha dato una salutare frustata a tutti. Che su certe questioni si facciano i duelli, e persino gli insulti reciproci, può anche andare: ma su certi altri argomenti forse si può convergere, e certe cose vanno salvate. Sono convinto che le cose di cui stiamo parlando possano essere patrimonio di tutti.