Una cosa di cui si discute molto in questi giorni è il problema dell’assunzione dei precari nella scuola. Da questo punto di vista, il programma del Pd dice di procedere con il progetto di assunzione di 150mila precari in tre anni, mentre il Pdl parla di assunzioni per il 50% di precari, e per il 50% di giovani. Lei cosa ne pensa?

Sono sulla linea del programma del Pdl, e la ritengo una concessione persino generosa. È curioso da parte del centrosinistra che si accusi sistematicamente il centrodestra di fare sanatorie edilizie, e poi loro ostinatamente ripropongano sanatorie nel campo dell’istruzione. Sono quarant’anni che, sia nella scuola, sia nell’università si va avanti con il sistema dell’assunzione automatica dei precari. Un procedimento che peraltro è una delle principali fonti di dequalificazione della scuola. Secondo me, d’ora in poi, bisognerebbe entrare nella scuola solo con un concorso, o prova di ingresso, come la si vuol chiamare. La proposta del centrodestra è già una proposta compromissoria, perché si rende conto che esiste una pressione molto forte da parte dei sindacati, di fronte alla quale rischia di saltare anche un governo.



Con quali criteri bisogna dunque provvedere all’immissione in ruolo degli insegnanti?

Il problema essenziale, per quanto riguarda l’immissione degli insegnanti, è la scarsissima preparazione disciplinare. Il fatto di insistere solo sull’aspetto didattico, cioè della preparazione professionale e didattica, è un grave errore. In questi anni, con le scuole di specializzazione (che sono state l’unica canale di immissione e di formazione) si è data un over-dose di preparazione didattica, a fronte di una impreparazione disciplinare clamorosa. Noi abbiamo insegnanti che arrivano nelle scuole, ad esempio in matematica, con una preparazione bassissima, di gran lunga inferiore rispetto a quella di un tempo. Un laureato in matematica oggi ha una preparazione infima. È inutile che Andrea Ranieri dica, come ha fatto in un articolo sull’Unità, che forse se avessero fatto le indagini Ocse-Pisa trent’anni fa avrebbero constatato una situazione ancora peggiore. Questo è falsissimo, e lo può dire solo chi non sta nel sistema dell’istruzione; chi invece ha visto passare studenti a centinaia sa benissimo che il livello è crollato, ed è crollato di conseguenza anche il livello degli insegnanti. Perciò il primo punto è la questione disciplinare. Poi, in secondo piano, anche delle metodologie didattiche.



Come valutare gli insegnanti che entrano nella scuola?

Io credo che ci debba essere una valutazione sia delle competenze disciplinari che delle capacità didattiche. Il punto è: chi fa questa valutazione? Un tempo si faceva solo il concorso di carattere puramente disciplinare. Io sono d’accordo che si debba anche valutare le capacità sul campo, mostrate a partire da un tirocinio. Questo però implica la creazione di commissioni composte pariteticamente da docenti di scuola secondaria e dell’università. Quello che escluderei nel modo più assoluto è la commissione composta da esperti di metodologia della didattica e da pedagogisti, che non sono in grado di giudicare nel merito specifico della preparazione. Nelle singole materie si richiede una preparazione e una capacità didattica che è strettamente correlata alla disciplina, e quindi gli unici che possono dare un giudizio di questo tipo sono gli insegnanti sul campo.



Parlare di valutazione significa anche parlare di carriera per gli insegnanti basata sul merito: una cosa di cui parlano entrambi gli schieramenti. Ma come si traduce concretamente?

Io sono assolutamente convinto che si debba fare una carriera fondata sul merito, e questo comporta immediatamente il problema della valutazione. Allo stesso tempo ritengo che abbiamo già fatto un enorme quantità di riforme pasticciate, quindi rimettere mano all’ennesima riforma sarebbe un errore gravissimo. Per trovare un terreno bipartisan bisogna allora per un po’ lasciare le cose come stanno. Quando dunque sento parlare di pluralità di carriere nel senso che all’interno della scuola ci dovrebbe essere chi si occupa di coordinamento didattico, di coordinamento dei dipartimenti disciplinari, mi trovo in totale disaccordo: in futuro vedremo, ma al momento si tratterebbe di una moltiplicazione ulteriore di funzioni che appesantisce in modo spaventoso la scuola. Stiamo andando in una direzione catastrofica, che è quella di pensare continuamente alle metodologie organizzative e mai ai contenuti. Il punto è introdurre le procedure di valutazione della qualità dell’insegnamento, con scatti non automatici per anzianità ma collegati a giudizi qualità.

Chi stabilirebbe i parametri sulla base dei quali valutare gli scatti di carriera?

Secondo me non si possono usare troppi parametri, ma un metodo già usato i altri Paesi, fare cioè periodicamente per ogni scuola una verifica fatta dall’esterno, da altri docenti. Il ministero nomina una commissione fatta da docenti di altre scuole, e di altre sedi, che per una settimana va in una scuola, interroga i docenti, fa domande agli studenti, assiste a quello che si fa nelle classi, vede quali sono i libri di testo, come vengono svolti i programmi, e fa un rapporto che contiene un giudizio anche sui singoli insegnanti. Su questa base si crea una valutazione, che poi serve come un profilo di carriera.

Si potrebbero anche valutare gli effetti dell’insegnamento direttamente sugli studenti.

Valutare gli studenti è secondario, perché ci sono situazioni diversissime, e perché si creano situazioni ambigue. Prendiamo l’esempio dell’università: il fatto di creare parametri di giudizio basati sugli abbandoni, dando più finanziamenti agli atenei con minori abbandoni e con il maggior numero di laureati in corso, ha prodotto un decadimento della didattica. Così il docente rigoroso viene isolato. Questo è il concetto delirante della scuola come azienda; magari ha sì bisogno di criteri di efficienza, ma la scuola non è una realtà che produce qualcosa. La scuola trasmette educazione: se la valuto in termini di efficienza come un’azienda, sbaglio. Quello che conta è valutare l’insegnante.

La questione della parità scolastica è ancora aperta: il Pdl è favorevole al finanziamento diretto alle famiglie, il Pd è contrario a finanziamenti pro capite per gli studenti. La partita si gioca tutta sul buono scuola?

Io sono d’accordo con il buono scuola, anche se non credo che sia il toccasana. Sono soprattutto dell’idea che si debbano responsabilizzare le famiglie. La famiglia deve avere la possibilità di scelta. Detto questo, però in Italia dobbiamo mettere mano alla scuola pubblica; non possiamo aspettare una significativa espansione della scuola privata, perché nel frattempo si sfascerebbe il sistema. Ho letto un articolo del Wall Strett Journal secondo cui il buono scuola, usato negli USA, è stato utile ma non decisivo. Quello che è stato decisivo è stato il fatto che nel Massachussets abbiano reintrodotto un tipo di insegnamento disciplinare classico che l’ha portato, nelle valutazioni più recenti, ad essere il primo tra tutti gli stati americani come qualità dei risultati.

Sul tema dell’autonomia pare di vedere una grande somiglianza dei due programmi: secondo lei questo è un tema importante?

Bisogna stare attenti a non libanizzare la scuola. Io penso che la scuola si debba sì autonomizzare sull’organizzazione interna, e che abbia anche una certa libertà sulle pratiche d’insegnamento; però dico no all’autonomia eccessiva sui contenuti. L’idea che in una scuola si insegni la storia con un approccio di tipo comunista, da un’altra parte con un approccio di tipo fascista, o da una parte si insegna il darwinismo, dall’altra lo si denigra, non credo che sia un buona idea. Io voglio una scuola aperta e critica, che presenti i pro e i contro.

In termini concreti l’autonomia implicherebbe anche un coinvolgimento di privati e di enti territoriali nell’organizzazione della scuola: lei come vede questa possibilità?

Coinvolgimento dei privati a condizione che non determinino tutto. I privati cosa chiedono? Se arriva un’azienda che pretende che vengano formati dei quadri allora non va bene. Io penso che una società avanzata non abbia bisogna di questo, ma di persone che abbiano una preparazione di base sufficientemente solida da potersi poi orientare. Starei attento alla funzionalizzazione immediata dell’insegnamento.

Per quanto riguarda invece il reclutamento diretto del personale docente?

Il problema è quello di avere professori che abbiano conseguito un’idoneità certificata; dopo di che la scuola attinge dalle graduatorie il professore il cui profilo meglio corrisponde alle proprie esigenze. Questo sarebbe un aspetto assolutamente positivo dell’autonomia.

In conclusione: è possibile un’intesa bipartisan sulla scuola?

Ritengo giusto il comune interesse per la scuola, ma è utile che ci sia chiarezza. Oggi la scuola è strangolata da un intreccio infernale costituito dallo strapotere dei sindacati, che si comportano con la scuola come con Alitalia, volendo decidere tutto. Dall’altra parte c’è una certa burocrazia ministeriale centralizzata, e con essa i vari pedagogisti, che con atteggiamento trasformista firmano tutti gli appelli, per essere poi riconfermati nei loro ruoli. Il vero atteggiamento bipartisan sarebbe tagliare questo nodo gordiano che imbriglia la scuola.