L’obiettivo del completamento della riforma della scuola italiana non può prescindere, ha ragione in questo senso l’ex ministro Berlinguer, dal confronto con i dati Ocse-Pisa sui livelli di apprendimento dei quindicenni nostrani in lettura, matematica e scienze.
Dovrebbero fare notizia, tuttavia, non solo i mediocri standard di prestazione media del complesso degli studenti esaminati, se rapportato a quello degli altri Paesi che hanno partecipato alle valutazioni, bensì anche altri segnali, come quelli attinenti la varianza tra le scuole e l’importanza della motivazione ad apprendere quale elemento che entra a far parte integrante della riuscita negli studi. In Italia il 52,1% della varianza totale (ossia la differenza nei risultati tra gli studenti) è spiegata dalla varianza tra scuole, mentre la media OCSE è pari al 33,1%. Questo significa che il centralismo scolastico, per quanto persistente, è ridotto ad uno scheletro vuoto e che le scuole esprimono, se lo vogliono, profili ed identità connessi ai fattori umani e culturali (intelligenza di dirigenti, intraprendenza di docenti, rapporti con il territorio, ecc.) che, seppure con difficoltà, si sono imposti su certi condizionamenti di tipo burocratico.
L’altro spunto da tenere presente riguarda, come detto, la motivazione ad apprendere quale incentivo al miglioramento delle conoscenze. Le rilevazioni internazionali da tempo insistono sull’importanza della dimensione relazionale dell’apprendimento: peccano quando la riducono ad un problema di tecnica. Non esiste una qualche didattica operativa, per quanto aggiornata, che garantisca il meccanico trasferimento di conoscenze grammaticali, matematiche o scientifiche da una persona (l’insegnante) ad un’altra (l’alunno). La trasformazione delle conoscenze apprese in competenze (la forma che assume nella coscienza personale ciò che si è appreso) richiede un rapporto libero tra persone, dove l’adulto comunica anzitutto, attraverso la materia o l’attività che svolge, una ipotesi di significato che vive in prima persona, e l’allievo impegna la sua libertà nella verifica, talvolta faticosa ma sempre appagante, della scelta di una strada esistenziale, culturale e professionale che si chiarifica seguendo dei maestri. Traendo le somme di queste osservazioni, viene da dire che l’esperienza di chi la scuola la fa sul campo (nella classe e non nei progetti; attraverso le materie insegnate e non mediante astruse attività di socializzazione) mostra di essere un punto di riferimento indispensabile per coloro che dal punto di vista del governo del sistema scolastico si pongono l’obiettivo di colmare la distanza tra le condizioni dell’istruzione in Italia e quelle degli altri Paesi europei.
Si potrebbe obiettare che l’esperienza non costituisce una strategia complessiva; si deve rispondere che qui si sta parlando non del fare scuola inteso come esperimento e improvvisazione individuale, ma come presa in carico responsabile, da parte di adulti, di tutta la realtà che viene loro incontro con le esigenze e le domande della situazione particolare nella quale sono immersi (quella scuola, quella classe, quella disciplina, quel territorio).
La risorsa fondamentale della scuola sono degli insegnanti preparati e motivati: su questo terreno Berlinguer ed Israel convergono. È arrivato anche il momento decisivo (forse) per pensare ad un nuovo itinerario di formazione e reclutamento dei docenti che separi il conferimento dell’abilitazione all’insegnamento dall’assunzione (alla quale devono concorrere direttamente anche le scuole autonome), nonché ad una delineazione della carriera del docente, giuridica ed economica, degna di questo nome. Scontate le dovute distinzioni sono confortanti, su questi ultimi punti, le analogie espresse, almeno a parole, dai due principali schieramenti politici che si contendono la scena. Temi come la valutazione del valore aggiunto delle singole scuole, la valorizzazione delle eccellenze tra gli alunni, l’autonomia finanziaria conferita agli istituti sono entrati nell’orizzonte mentale degli operatori della scuola e, se non del tutto acquisiti, sono materia di riflessione. E tuttavia per non cadere dalla padella nella brace, e cioè per non trasferire certe rigidità tipiche dello statalismo dalla conduzione del sistema generale al livello dell’azione didattica del docente, occorre ribadire un metodo. Esso consiste nell’aiutare i soggetti che esistono (scuole autonome statali e paritarie, compagnie educative di docenti e alunni, ecc.) a crescere, ad esprimersi e ad incontrarsi, piuttosto che appesantire la situazione esistente con una nuova tornata di norme, circolari e leggi.



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