Da quando i Rapporti triennali OCSE-PISA hanno pubblicizzato delle comparazioni tra i Paesi circa le competenze dei quindicenni, che si sono rivelate particolarmente sfavorevoli all’Italia, la prima reazione di molti insegnanti, di dirigenti, di funzionari amministrativi dell’istruzione è stata d’incredulità: le statistiche sono fasulle, i test sono prodotti dalla cultura anglosassone e perciò non sono adatti ai nostri ragazzi. E, in ogni caso, i nostri ragazzi sono incomparabilmente geniali! Al mito del cinema neorealista dei “poveri, ma belli” è subentrato il mito del “poveri, ma geniali!”. Si tratta dell’ennesima versione del credo italico nello “stellone”, dell’ideologia pigra e reazionaria dell’ “italianità”.
È una barca del tutto inadeguata ad affrontare i marosi della globalizzazione. Il saggio di Irene Tenagli contribuisce a spezzare la crosta della pigrizia, sotto la quale il Paese sta andando al declino. A quali condizioni possono essere dissotterrati i talenti dei nostri giovani? Mancano investimenti, infrastrutture, risorse? Non mi pare che sia la questione principale. Questo resta un Paese ancora ricco, con un reddito pro capite elevato. Ciò che lo blocca è l’ideologia italiana. Che a sua volta retroagisce sulle strutture socio-economiche e politiche, cementando così un blocco storico conservatore. Esso non durerà a lungo: si tratta di vedere se tale blocco si sgretolerà sotto i colpi crudeli della globalizzazione, trascinando il Paese verso il basso della scala mondiale, o per iniziativa rigenerativa delle persone e delle classi dirigenti del Paese.
L’ideologia italiana: lo Stato è padre e padrone della società. Solo lo Stato garantisce la giustizia sociale, l’uguaglianza dei punti di partenza e di arrivo. Solo lo Stato è il motore dello sviluppo. Solo un sistema educativo e universitario centralizzato, statale, autoreferente può produrre l’eguaglianza. Intanto sottoproduce un numero abnorme di corsi, passati dai circa 2.000 del 2001 ai 5.434 del 2007. La produzione di cattedre a mezzo di cattedre! Il risultato di questo statalismo pervasivo sono corporazioni immobili e una struttura politico-istituzionale dove tutti rappresentano tutti e nessuno decide nulla. Morselli, lo scrittore lombardo suicida, definì in tempi lontani questo modello come “socialidarietà”. E gli imprenditori? Quelli grandi sono abituati da sempre a farsi assistere, dentro un modello di sviluppo che è stato storicamente fondato sul basso costo di manodopera e sulla scarsa innovazione tecnologica. Non hanno bisogno di alte qualificazioni. E allora “perché studiare?” si chiedono i ragazzi italiani. La verità è che il sistema economico-sociale, il sistema educativo, universitario e di ricerca, il sistema politico, il sistema socio-demografico si tengono l’un l’altro in un circolo vizioso, che soffoca nella sua stretta le risorse giovani del Paese. Una minoranza se ne fugge, la maggioranza resta, ma procrastina i tempi delle scelte e della vita, allunga la transizione ad un lavoro poco allettante e qualificato.
Non riesco a vedere tra i protagonisti del circolo vizioso la geografia. L’Italia dei campanili sta alla base dello sviluppo della piccola impresa, è il motore dello sviluppo. Non le piccole comunità sono “soffocanti e bigotte”, lo sono i poteri forti di questo Paese, gli intrecci corporativi e parassitari di banche, industria, finanza e politica. L’apertura mentale non dipende dalla geografia, ma dall’ideologia. E questa si può cambiare solo con una cultura “altra”, in grado di forare la cappa della mentalità corrente.



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