La principale forma di competenza chiamata in causa, in questo caso, è una competenza di tipo trasversale, che nel gergo dell’offerta formativa è definita dai cosiddetti “descrittori di Dublino”, cioè abilità non legate alla conoscenza di una specifica disciplina. L’università italiana non si è mai preoccupata della formazione di queste competenze, mentre invece dalle indagini che sono state fatte sulla domanda di competenze che proviene dalle imprese emerge che questo è un aspetto a cui esse prestano attenzione: dalla creatività all’autonomia, alla capacità di lavorare in gruppo, alla affidabilità. Da questo punto di vista i laureati che escono hanno un bagaglio di tipo cognitivo molto forte, come dimostra poi la loro produzione scientifica, ma dal punto di vista della capacità lavorativa, il loro bagaglio è relativamente basso.
Fino a quando il numero dei laureati è rimasto ridotto – intorno alla metà degli anni 80 – il sistema produttivo era in grado di assorbire le persone e di valorizzarle sotto il profilo lavorativo: tra aspettative del laureato, posizione lavorativa ricoperta e domanda dell’impresa non c’era alcun tipo di “scollamento”. Esso si è creato quando il numero dei laureati è cresciuto esponenzialmente, nell’arco di 15 anni. A quel punto, per le imprese si è posto il problema del criterio di come selezionare le persone, nel momento in cui le università sfornavano un numero crescente di laureati.
C’è stata una fase in cui le università hanno cercato di aumentare la produzione di persone certificate – basti ricordare che negli anni ‘90 fu fatto l’esperimento dei diplomi triennali, poi abbandonato. Ma il sistema produttivo non diventava per questo capace dall’oggi al domani di riassorbire i nuovi laureati. Nello stesso tempo la competizione è aumentata a tutti livelli, chiamando in causa fattori come il grado di innovatività, creatività, eccetera.
Questo mi sembra un giudizio ingeneroso. Che invece il nostro sistema produttivo – e non quello universitario – non premi il merito, secondo me è tendenzialmente vero; le cito un esempio. Se lei guarda le retribuzioni dei lavoratori in riferimento al voto che hanno preso in uscita dal sistema scolastico, sia esso l’università o la scuola media superiore, non trova nessuna differenza. Allora questo ci porta a dire che sono le imprese che non valorizzano adeguatamente il patrimonio di cui sono portatrici queste persone – e questa è una prima spiegazione; oppure, in alternativa, che l’università produce delle graduatorie basate su voti di elementi che sono irrilevanti dal punto di vista delle imprese. Se uno che prende 110 e lode guadagna quanto uno che prende 90, allora questo vuol dire o che il 110 non corrisponde ad abilità importanti dal punto di vista lavorativo – abilità che servono magari per altre cose ma non per il lavoro, oppure che nel nostro sistema produttivo il laureato bravo non è, in fondo, impiegato al pieno delle sue potenzialità, quindi perché pagarlo di più?
In realtà è difficile trovare la verifica empirica dell’una piuttosto che dell’altra ipotesi. Tendono a coesistere tutte e due. Sul versante delle imprese c’è il fatto che, avendo noi un sistema delle imprese nano – in cui cioè il 40% delle imprese ha meno di 20 dipendenti e una grossissima quota di queste sono imprese a carattere familiare – allora a quel punto è probabile che queste imprese “preferiscano” pagare di più il figlio del titolare piuttosto che il laureato bravo. Però io non escludo l’altra spiegazione; faccio notare che è cosa molto recente l’attenzione delle università alla formazione di queste competenze trasversali. Se non fosse stato per la riforma Moratti del 2004, che ha insistito molto sui descrittori di Dublino i quali altro non sono che una declinazione delle competenze trasversali, le università avrebbero potuto perfino ignorare questo criterio nell’elaborazione dell’offerta formativa. Invece, adesso, tutte le università – quelle che hanno riformato gli ordinamenti o che lo faranno nel prossimo anno – sono costrette a dire, rispetto ai corsi che impartiscono, quali tipi di competenze intendono formare. Questo, ripeto, è stato un aspetto fino ad oggi trascurato.
Credo che da parte dello Stato ci sia stato un progressivo disimpegno e questo ha interessato entrambi i governi che si sono succeduti fino ad oggi. Spero che il nuovo governo si muova in una direzione diversa. L’esempio più eclatante è che i soldi per il prestito ponte ad Alitalia, dopo i soldi dei ferro-trasportatori, sono stati presi dai finanziamenti previsti per l’università. Questo è molto indicativo se si vuol valutare la situazione. Tuttavia, è altrettanto vero che lo Stato trasferisce fondi a università che si sono dimostrate oggettivamente incapaci di gestirli in modo meritocratico. E quindi è auspicabile che un finanziamento alle partnership tra il settore privato e le università riesca ad essere più meritocratico di quanto non siano state capaci di esserlo le università al loro interno.
Bisogna tener presente che le imprese tendono, specialmente in questa fase, a valorizzare la redditività di breve periodo. O si tratta di multinazionali, che possono permettersi di avere piani di ricerca di dieci o quindici anni, oppure un’impresa di media dimensione se non ha un ritorno economico nell’arco di 12-18 mesi non si lancia in progetti costosi a lunga scadenza. Mentre invece l’università la garanzia del finanziamento a medio periodo ce l’ha, e quindi può permettersi di investire tempo e risorse.
Quindi ci vorrebbe un bilanciamento di queste due dimensioni. Poi occorre tener conto del fatto che non tutto si può “partenariare”. Perché per la maggioranza delle discipline di tipo scientifico c’è un equivalente partner nel settore privato, mentre per le discipline umanistiche e sociali trovarlo è una impresa molto più azzardata.