Definirei “aporia” la questione dei debiti formativi, perché ambedue le tesi hanno fondamento: il recupero dei debiti formativi è una necessità; il recupero dei debiti formativi è impraticabile. Intanto i numeri sono quelli che il Ministero pubblica e i giornali del 14 maggio riportano. È la fotografia di un disastro formativo e del caos organizzativo. Per le famiglie e i loro ragazzi è quello formativo ed educativo la questione cruciale.
Perché e donde nascono “i debiti formativi”? Primo: le materie insegnate sono troppe (dalle 11 in su, a seconda degli indirizzi di scuola). Troppe, a causa di culture e interessi sindacal-corporativi. C’è poco tempo per tutte. I ragazzi imparano quasi nulla di quasi tutto.
Secondo: le materie hanno, al cospetto della valutazione, tutte la stessa importanza. In altri Paesi, coerentemente con la logica del core-curriculum, del curriculum essenziale, si distingue tra poche discipline essenziali da “certificare” rigorosamente e discipline da “validare”.
Terzo: gli insegnanti non sono preparati all’insegnamento. Non da oggi. Da sempre. Prendiamo matematica: solo il 20% degli insegnanti è laureato in matematica. Ma, laurea a parte, di nessuno viene verificata l’abilità ad insegnare.
Quarto: non esistono più standard e indicatori pubblici e condivisi per valutare gli apprendimenti. Con la fine dei programmi gentiliani, è crollato anche il paradigma valutativo condiviso: anarchia valutativa totale. La scuola non è più in grado di dire alle famiglie e al Paese la verità circa il livello effettivo degli apprendimenti dei ragazzi.
Questo succede e questo continuerà a succedere.
Ora che si fa? Si aboliscono i recuperi annuali e si torna a quelli biennali, previsti dalla Moratti? O si ripristinano gli esami di settembre? Nessuna di queste soluzioni va alla radice. Nell’ipotesi che si torni agli esami di settembre, si riproporranno tutti i dilemmi: bocciarne troppi o pochi? In base a quale criterio? Dilemmi che vennero sciolti da D’Onofrio nel 1994 con l’abolizione degli esami di riparazione. Il problema, come si vede bene oggi, venne solo spostato in avanti. Rispostandolo indietro non si risolve nulla.
E allora? Ci sono soluzioni, già adottate in giro per il mondo.
1. Identificare il core curriculum di 4/5 competenze chiave (lingua prima, lingua inglese, matematica, scienze, storia culturale e politica) e il vocational curriculum, organizzando il tempo di apprendimento/insegnamento attorno a questi due nuclei. Il resto è lasciato al Lifelong&Lifewide Learning.
2. Costruire percorsi personalizzati di acquisizione delle competenze-chiave: non tutti i ragazzi arrivano alla stessa età e con gli stessi ritmi agli standard fissati su scala nazionale ed europea. Alla personalizzazione dei percorsi (non delle competenze-chiave!) appartiene anche l’ipotesi di trattenere un anno in più sullo stesso core curriculum (bocciare!), ma anche l’ipotesi di far fare dei salti in avanti (le eccellenze!). Ciò che resta decisivo è che la misura del percorso sia la persona e non l’organizzazione per classi di età.
3. Certificare rigorosamente e severamente, sulla base degli standard e degli indicatori pubblici, il livello di competenze acquisite. Occorre dire impietosamente la verità ai ragazzi, alle famiglie, al Paese senza più ipocrisie. Di lì in avanti tocca alla libertà/responsabilità dei ragazzi e delle loro famiglie.
Che si fa nell’immediato? Si può ipotizzare, data l’ingestibilità organizzativa, una moratoria. Ma essa non assumerà il significato di una resa al peggio, al “facilismo” demagogico di D’Onofrio, al “severismo” propagandistico e fallimentare di Fioroni, solo se nel contempo si annuncerà una prospettiva di affronto della questione quale è quella sopra proposta. Quella o un’altra, se c’è. Qui tocca alla politica non darsela a gambe per l’ennesima volta.