Il fallimento scolastico, spesso sintomo oltre che causa del disagio giovanile, è un problema comune a molti paesi, che lo affrontano in modo positivo solo partendo dall’idea che migliorarne la qualità è un ottimo punto di partenza per soluzioni di ampio respiro che aiutino effettivamente le fasce di popolazione più a rischio.
Negli Stati Uniti, la scuola è una competenza dei singoli stati e viene gestita dagli enti locali: in base alla logica del think globally, act locally il centro ha solo una funzione strategica di supporto dell’innovazione e di controllo. Questo consente una grande flessibilità di soluzioni, il cui successo giudicheranno i cittadini, e genera quindi un approccio molto pragmatico: ad esempio, per risanare le scuole che non riuscivano a raggiungere gli standard minimi, a Philadelphia le hanno divise in tre lotti affidandoli rispettivamente ad un apposito organismo municipale, a organismi non profit e a imprese di educazione che operano secondo logiche di mercato, per confrontare le soluzioni e scegliere le proposte migliori da generalizzare.
Un articolo comparso sull’Economist l’8 maggio scorso racconta l’esempio virtuoso di una scuola charter della zona Sud di Chicago, parte di uno dei più interessanti fenomeni di rinnovamento della scuola americana degli ultimi vent’anni (il primo stato a autorizzare le scuole charter è stato il Minnesota nel 1991). Una scuola charter è “una scuola pubblica di scelta, indipendente, libera quanto alle regole ma affidabile quanto ai risultati”: in quanto pubblica, è aperta a tutti, gratuita (finanziata fino all’80% del costo delle scuole di distretto con i soldi delle tasse), e deve rendere conto dei risultati che raggiunge sia ai propri utenti che allo stato.
Rispetto alle scuole distrettuali, al cui scadimento rappresentano spesso una reazione, le charter sono meno vincolate da legami burocratici, ed essenzialmente autonome nelle loro decisioni, in particolare per la scelta e il trattamento degli insegnanti; ne consegue che i sindacati, benché possano essere fra i soggetti fondatori, siano molto critici verso questa esperienza (anche l’articolo dell’Economist cita il parere di una sindacalista, che critica il tentativo di “applicare alla scuola un modello aziendalistico”).
Una scuola charter può essere aperta da un gruppo di insegnanti o di famiglie, da un’associazione, un’università, perfino da una scuola di distretto che decide di trasformarsi in charter, e viene autorizzata dalle autorità locali per mezzo di un decreto (la chart, appunto) sulla base di un progetto validato da un ente, di solito un’università. L’autorizzazione ha una scadenza (di solito cinque anni) in capo alla quale, se non ha mantenuto gli impegni presi con gli utenti e con lo stato, la scuola viene chiusa.
Il successo di questo tipo di scuola è stato rapido e crescente: attualmente, quaranta degli stati americani hanno leggi che ne autorizzano l’apertura, sia pure limitandone il numero: se le richieste sono superiori ai posti si ricorre all’estrazione a sorte, e la lista d’attesa si aggira, mediamente, su 150 domande inevase ogni anno. Le qualità più apprezzate dai genitori sono soprattutto la sicurezza (molte charter operano in quartieri difficili), la possibilità di scegliere liberamente il progetto della scuola, e i migliori risultati ottenuti, come nel caso della Urban Prep Charter Academy di cui tratta l’Economist, esplicitamente finalizzata a promuovere la preparazione accademica dei ragazzi meno favoriti.
Sottolineo che la maggior parte delle scuole charter non è certo di élite quanto all’utenza, prevalentemente composta di ragazzi afroamericani, latino americani e bianchi poveri, ma lo è quanto ai risultati ottenuti, grazie alla personalizzazione dei progetti, all’impegno dei docenti e all’utilizzo intensivo di tutor e tecnologie dell’informazione. Una delle scuole che ho personalmente visitato a Boston, la MATCH (media and technology charter high school, www.matchschool.org), con sette studenti neri su dieci e due ispanici, e un’accentuazione quasi esasperata sulla disciplina e sulla riuscita, si è piazzata fra le otto migliori scuole charter degli USA su 400 esaminate, con il 100% di studenti ammessi al college (il valore medio per la stessa tipologia di popolazione si aggira intorno all’8%). Nel Bronx, la Harriett Tubman School, per ragazzi dai 6 ai 14 anni, quasi interamente afroamericani e con una percentuale di ragazzi sotto la soglia di povertà intorno al 70%, ottiene risultati paragonabili alle migliori scuole private della città, ed ha tassi di abbandono quasi nulli: la scuola è gestita da Edison Schools (www.edisonschools.com), forse la più nota delle “imprese di insegnamento” private cui accennavo prima.
Non è detto che le soluzioni adottate negli Stati Uniti per le charter siano automaticamente replicabili in Italia, ma certamente se ne possono ricavare utili indicazioni, purché si accetti di partire dalla considerazione che il fallimento della scuola mette a rischio l’intera società, e tutto è meglio della rassegnazione – peggio ancora se nobilitata dall’ideologia – ad uno scadimento di cui pagheranno le conseguenze soprattutto i più deboli.



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