La prima urgenza della scuola italiana, sono in molti a dirlo, è quella migliorare il proprio livello qualitativo, alla luce degli sconsolanti risultati nelle valutazioni internazionali. Per questo è necessario valutare i sistemi di istruzione di altri Paesi, come il modello statunitense delle “charter school” o quello inglese delle “trust school”, di cui ilsussidiario.net si è occupato nei giorni scorsi. Non è infatti riformando a livello centrale che si può migliorare la nostra scuola, ma solo cercando nuove soluzioni nell’organizzazione delle singole scuole. Di questo parliamo con la neo presidente della Commissione Cultura della Camera, già responsabile scuola di Forza Italia ed ex sottosegretario del ministro Moratti, l’onorevole Valentina Aprea.



Migliorare le nostre scuole non può significare ipotizzare ancora nuove riforme, che genererebbero solo nuova confusione. Eppure qualcosa bisogna pur fare, per alzare il nostro livello qualitativo così lontano dagli altri Paesi, non solo europei: da dove partire?

Credo innanzitutto che il confronto in Parlamento tra maggioranza e opposizione e col governo in questa legislatura appena iniziata debba mirare a un obiettivo che definirei storico: armonizzare il quadro giuridico del settore dell’istruzione, che da troppe legislature è interessato da riforme che non sono state portate a compimento e che spesso si sono rivelate in contraddizione tra di loro, creando disorientamento e sfiducia nel mondo della scuola e disillusione nei giovani. Dico questo perché di governance e di sistemi di autonomia nell’istruzione stiamo discutendo dal ’97, anno di introduzione della Legge Bassanini. Da allora vi sono state, come dicevo, molte riforme che non hanno attuato, se non in minima parte e solo “sulla carta”, il principio di una governance più libera, giocata cioè più sul principio di sussidiarietà che su quello delle procedure burocratiche. Da neopresidente della Commissione Cultura della Camera, premerò affinché si vada a sintesi di tutto questo e perché si possa da una parte riformare delegificando, e dall’altra favorire una nuova governance della scuola che promuova molto di più una gestione dal basso del sistema, lasciando solo il governo, in termini di norme generali, a livello centrale.



Proviamo a guardare ad alcuni modelli internazionali di governance della scuola, come quello americano o inglese di cui abbiamo parlato: che lezione può trarre l’Italia da questi esempi? Sono realtà applicabili anche da noi?

Per quanto riguarda i modelli di autonomia scolastico citati, sono i modelli cui noi di Forza Italia ci siamo sempre ispirati e li riteniamo interessanti, pur ricordando che vanno confrontati con la realtà italiana. Di certo non si può continuare a parlare di autonomia della scuola, quando poi il centro continua decidere tutto. In questi anni si è riusciti a realizzare alcuni esempi, alcune best practices, soprattutto per quanto riguarda alcuni modelli regionali, in primo luogo in Lombardia, ma anche in Veneto, in Liguria e per certi versi in Emilia-Romagna. Quello che possiamo fare concretamente adesso è muoverci a partire dal livello centrale, che ancora controlla tutto il sistema scolastico nazionale, semplificandolo, diminuendo cioè il ruolo dello Stato. Nel guardare ai modelli internazionali noi dobbiamo dunque tenere conto del fatto che siamo costretti a sporcarci le mani con la mole di leggi che abbiamo ereditato. Il primo impegno è dunque quello di cercare, diciamo così, di “volare alto”, liberandoci dalla zavorra dello statalismo che ha segnato la prima Repubblica, e da cui nemmeno le legislature della cosiddetta seconda Repubblica hanno saputo liberarsi.



Lei ha citato il caso della Lombardia, il cui perno fondamentale è il sistema dei vuocher, dei buoni scuola, che punta a garantire un’effettiva parità, condizione fondamentale per una vera competizione fra scuola autonome, statali e non. Questo modello può essere esportato a livello nazionale o deve essere applicato dalle singole regioni, ognuna tenendo conto delle proprie peculiarità?

Mi auguro come prima cosa che con la nuova legislatura, venga meno il contenzioso reciproco tra Regione Lombardia e governo, sorto nell’ultimo scorcio della passata legislatura, in modo che il modello del Pirellone riceva il giusto apporto che merita. La questione della sua esportabilità ha a che fare con il dibattito più ampio sulle norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche, la libertà di scelta educativa delle famiglie, e con la riforma dello stato giuridico dei docenti.
Una riforma liberale e sussidiaria basata su questa tre pilastri ci avvicinerebbe ai modelli avanzati, come quelli anglosassoni, o ad altri sistemi efficaci di altri paesi europei, come ad esempio quello della Finlandia, Paese che vanta un livello qualitativo veramente alto, grazia a un sistema basato su una forte cultura della valutazione e della responsabilità.

Quali sono le indicazioni operative che la Commissione Cultura da lei presieduta porterà al ministro dell’Istruzione?

Presto in Commissione incontreremo i rappresentanti del governo, tra cui il ministro Gelmini. In quell’occasione farò presente all’esecutivo che intendo portare in discussione una legge che ha per oggetto la nuova governance delle scuole, basata su un nuovo protagonismo delle famiglie, degli insegnanti e dei dirigenti, ma anche su una grande apertura di credito verso tutti quei soggetti della società civile, anche le imprese, che volessero investire risorse (materiali o umane) nell’istruzione locale. In questa legge è prevista anche la trasformazione delle istituzioni scolastiche in fondazioni, come avviene nei Paesi di cui avete parlato e di cui avete mostrato già i vantaggi.
Credo che la scuola italiana sia matura per l’autonomia statutaria, per un autogoverno, liberando risorse e protagonismi, che andranno poi valutati e misurati rispetto all’efficacia. Non possiamo rimanere fermi a un’autonomia solo teorica, ipotizzata più di un decennio fa, e agli organi collegiali, che addirittura risalgono al 1974.

Quando si parla di valutazione, sia delle scuole che degli insegnanti, si finisce sempre con l’adagio: «Per farla bisognerà poi scontrarsi con i sindacati». Come dire che quello, alla fine, è un problema irrisolvibile, o comunque fuori dalla portata di una politica troppo debole. Come, operativamente, si può far fronte alla strapotere sindacale, e anche a quello della burocrazia ministeriale?

Credo che il governo, con i suoi primi atti, abbia già evidenziato la volontà di creare una discontinuità con il passato (basti pensare a quanto detto sulla Pubblica Amministrazione dal ministro Brunetta). Inoltre, per quanto il riguarda il mio ruolo in Commissione faccio molto affidamento sul nuovo clima che si è creato tra maggioranza e opposizione. Credo che, se continuerà il confronto e il dialogo costruttivo che abbiamo visto in atto in questo ultimo periodo, si potrà rafforzare il ruolo della politica, in un’ottica di servizio al bene comune. Questo potrà portare alla creazione delle cosiddette “istituzioni intelligenti”, capaci cioè di creare reciproche convenienze tra valori condivisi, vincoli esterni, interessi e le libertà fondamentali dei singoli. Se la politica torna a decidere, a sostenere (lealmente per quanto riguarda la maggioranza, obiettivamente per quanto riguarda l’opposizione) le decisioni governative, forse sconfiggeremo quella parte conservatrice che finora ha impedito di fare riforme.