L’insediamento della nuova Commissione cultura e istruzione della Camera, sotto la presidenza di Valentina Aprea, accade all’insegna di un nuovo spirito di legislatura. Perché da anni la politica non riesce a fare riforme, in particolare quella del sistema educativo nazionale? La risposta dei politici: perché i poteri forti lo impediscono! Il ritornello desolante di molti aspiranti riformatori è sempre stato: «non ce lo faranno fare mai». Così governi e Ministri si sono arresi… per non essere sconfitti. Questo nemico potentissimo e oscuro non è soltanto un alibi. Che il governo effettivo del sistema sia da decenni nelle mani di una potente burocrazia ministeriale e dei sindacati è un fatto. Attorno a questo core si dispongono più di 800.000 insegnanti, 100 mila precari, 200.000 tra ausiliari tecnici, amministrativi e bidelli. Si tratta di un blocco amministrativo e sociale, che ha finito per ridurre la politica a notaio di interessi corporativi.
Ciò che traspare dalle prime dichiarazioni del Presidente della Commissione è la consapevolezza che la debolezza della politica non è l’effetto, ma la causa della prepotenza corporativa. Affiora qui una preziosa constatazione autocritica: che progetti di riforma reciprocamente contraddittori hanno finito per rendere la politica più debole. Si vedrà se questo indurrà governo e opposizione alla bipartisanship, che molti si attendono. Tuttavia, solo se la politica risponde alle domande dei cittadini, può divenire così forte da ricondurre gli interessi dall’esondazione al flusso dentro un alveo legittimo.
Perché la politica diventi forte, deve essere innovativa sul punto decisivo: la scuola è la scuola dello Stato o la scuola della società civile? Se si sceglie il secondo corno del dilemma, allora si dovrà procedere su una strada solo apparentemente paradossale: quella di legiferare delegificando. Anche per disboscare la giungla enorme di leggi, decreti, ordinanze, regolamenti occorre una legge. Che però deve contenere una clausola di dissolvenza dell’intera sovrastruttura istituzionale, legislativa e amministrativa che imprigiona la libera iniziativa educativa dei genitori, dei docenti, degli imprenditori.
Una nuova legge di riforma deve contenere una pars construens e una pars destruens. La prima prevede l’autogoverno delle scuole, fino alla trasformazione volontaria in Fondazioni, e lo spostamento in capo alle Regioni che lo vogliano (federalismo a geometria variabile) delle competenze sul personale e sull’intero assetto organizzativo. Il Ministero diviene un Ente di coordinamento, di gestione dei rapporti internazionali, di motore per la ricerca scientifica in campo educativo.
La pars destruens: con una sola legge di poche righe viene abolito l’intero Testo unico dell’istruzione. Alla Repubblica competono la formulazione di standard e la valutazione degli istituti autonomi, mediante un’Authority apposita. Se finora, in questo come in altri settori, la delegificazione e la deburocratizzazione non sono riuscite è perché mancava una volontà condivisa di destatalizzazione del sistema. Il modello di stato amministrativo giacobino-napoleonico-sabaudo che i Piemontesi hanno imposto all’intero Paese appare sempre più inadeguato a sostenere le sfide dell’economia globalizzata della conoscenza. La prima di queste è la personalizzazione dei percorsi educativi, è il Lifelong/LifewideLearning. Tutto l’arco delle culture politiche del Paese è stato fortemente segnato dalla storia dello Stato nazionale. Ora questa storia si sta esaurendo.



Leggi anche

SCUOLA/ Realtà "aumentata" e sapienza umanistica, avanti entrambe: come vincere la sfida“Senza pace: le guerre interrogano l’Italia”/ Incontro di PadovaLegge con Tajani, Buttafuoco e Botteri