Demotivati, depressi, presi di mira da alunni e genitori: spesso è questo il ritratto che giornali e fiction televisive tratteggiano dei docenti italiani. Eppure il 78,3% di essi, potendo ricominciare, sceglierebbe di nuovo la stessa professione.
Lo afferma l’indagine conoscitiva Istat del 2007, che evidenzia i molteplici aspetti del lavoro apprezzati dagli insegnanti. Tra tutti spicca in maniera molto netta il rapporto con gli studenti, segnalato dall’87,8%. Seguono la passione per l’insegnamento (23,2%), la possibilità di mettere nel lavoro la creatività (10%), il rapporto con i colleghi (8,2%). Tra i motivi di insoddisfazione più segnalati compare al primo posto (23,1%) l’eccesso di burocratizzazione e solo al secondo (18,7%) l’inadeguatezza della retribuzione.
A molti insegnanti dunque piace la professione che svolgono, anche se l’insoddisfazione è latente e talora sfocia in fenomeni come il burnout (disturbo di carattere psicosomatico determinato dall’usura psicofisica). Secondo le ultime rilevazioni, questa sindrome di disagio mentale professionale è in percentuale del 70 per cento tra le richieste di inabilità al lavoro nei docenti . Questo quadro in chiaroscuro suggerisce che ciò che rende vitale questa professione è anzitutto la decisione del docente di tenere aperti i canali con la realtà (la classe, la disciplina, i colleghi); ma che, nello stesso tempo, è facile smarrire questa motivazione lungo il percorso professionale, se l’io si chiude in sé stesso e diventa autoreferenziale.
Non giova di certo a tenere aperta la sfida con il reale l’appesantimento burocratico cui l’insegnamento è costretto in situazioni come quella italiana, molto centralizzata e poco consegnata al rischio della libertà personale (del docente, dei genitori, degli stessi alunni). Lo spazio di libertà nel quale poter svolgere la comunicazione educativa è, infatti, parte integrante della stessa attività di insegnamento.
La fase culturale e politica che stiamo attraversando è particolarmente adatta a questo genere di riflessione, perché si sta cercando di superare l’idea di una scuola come luogo deputato unicamente alla inclusione sociale. Una scuola che all’opposto intende essere luogo in cui si trasmette un sapere, cioè una ipotesi di senso che attraversa tutte le sfaccettature della realtà; una scuola di questo genere ha bisogno di insegnanti consapevoli di ciò che li attende.
Da questo punto di vista l’associazione professionale nata dalla libera iniziativa di docenti che si mettono insieme per condividere un tratto del cammino comune è una risorsa fondamentale per gli stessi insegnanti e tale dovrebbe essere intesa, come accade in molti paesi europei, dalle stesse istituzioni. La ragione di questa importanza è duplice:
• l’associazione è una forma di sussidiarietà in atto tra docenti perché in essa si verifica quel sostegno reciproco (specie tra docenti esperti e docenti alle prime armi) che ricolloca continuamente la persona di fronte al desiderio con cui ha deciso di intraprendere il proprio compito;
• in secondo luogo l’associazione è un luogo in cui matura la consapevolezza della dignità pubblica della professione docente che oggi più che mai necessita di essere ripensata nella sua forma giuridica fino alla conseguenze di carattere economico.
Tutto questo però non accade meccanicamente, e anche l’associazione (come dimostra la storia di un certo associazionismo di categoria nel nostro paese) può subire una involuzione burocratica che la porta alla sterilità.
L’associazionismo sindacale si prefigge prevalentemente la difesa degli interessi economici di una categoria. Nel caso della scuola e degli insegnanti, questo ruolo si evidenzia nella contrattazione relativa alla stipula triennale del contratto nazionale di lavoro (seguono poi varie forme di contrattazione decentrata). La logica che presiede questo tipo di rapporto tra lavoratori (i docenti) e il datore di lavoro (lo Stato) è di tipo dialettico. I sindacati della scuola (i maggiori sono affiliati alle confederazioni Cgil, Cisl, Uil) agiscono sulla base di una sorta di delega a loro conferita dall’intero corpo docente. Inoltre, gli insegnanti italiani sono equiparati, dai sindacati confederali, al personale non insegnante che opera nella scuola (amministrativi, tecnici, ausiliari), ragione per cui non godono di una contrattazione autonoma. Al tavolo della contrattazione (dove per conto del governo siede l’agenzia Aran) sono presenti anche sindacati autonomi (Snals, Gilda) la cui azione politica però non ha inciso sulla anomalia italiana che ha assimilato la figura del docente a quella di un operatore sociale.
L’associazionismo professionale si prefigge scopi non sindacali o non solo sindacali. Il presupposto di natura culturale è il sostegno reciproco tra gli aderenti alla stessa associazione. In ambito scolastico una associazione professionale di docenti esplica le sue finalità nell’attività di formazione della coscienza professionale degli associati e nella predisposizione di servizi di cui i medesimi possono fruire. In questo senso è diverso il rapporto con lo Stato: il sindacato non ne può prescindere e quindi tende ad operare in un regime di assistenzialismo statalistico; l’associazionismo professionale rispondendo al bisogno di cultura e di strumenti del docente implica una visione sussidiaria dello Stato, cui si chiede di ritirarsi di fronte all’emergere di una serie di potenzialità che risiedono nella capacità del docente di decidere autonomamente del proprio lavoro.
Occorre che permanga vivo il cuore dell’associazione e cioè l’io in azione.