Occorrerà leggerlo attentamente il libro di Irene Tinagli “Talento da svendere. Perché in Italia il talento non riesce a prendere il volo”. Intanto, la recensione che ne ha dato La Repubblica lo scorso 29 aprile non convince molto, fermo restando che forse è la recensione, e non il libro, responsabile delle perplessità.
Chi può mettere in discussione che l’Italia sia un paese bloccato, che rischia un declino irreversibile? Partiamo pure da questa ammissione, a condizione di precisare chiaramente in cosa consiste questo blocco e questo declino, quali ne sono le cause e quali i possibili rimedi. E qui alcune delle osservazioni fatte non convincono, sia perché sono poco rilevanti sia perché non sono caratteristiche della situazione italiana.In Italia pochi conoscono una lingua straniera? Ma anche in Francia, in Inghilterra, in Germania o negli Stati Uniti pochissimi conoscono una lingua straniera e molti masticano un po’ di inglese esattamente come da noi. Nei paesi anglosassoni poi, la conoscenza dell’inglese esenta dal problema. È proprio vero che in Italia ci si cura poco dell’estero? Pochi come gli italiani sono “esterofili” e viaggiano in continuazione. Davvero si crede che uno spagnolo medio sappia gran che di quel che succede oltre i suoi confini? Si dice che pochi italiani usano Internet. Aumenteranno rapidamente ma non sarà questo a salvarci. Davvero si crede che Internet sia una fonte di cultura e di creatività? Internet è un gigantesco volume di pagine gialle, utile a chi possiede la cultura per usarlo, deleterio per chi non la possiede e vi si affida passivamente. È istruttiva, al riguardo, la vicenda di quei 67 professori dell’Università “La Sapienza” che hanno accusato il Papa di rifare il processo a Galileo basandosi sui dati di Wikipedia, l’enciclopedia pattumiera di Internet…
Se affrontiamo la questione in quest’ottica ristretta non andremo lontano. Né andremo lontano accontentandoci dei soliti falsissimi luoghi comuni sull’Italia che non ha mai avuto una scienza sua perché Marconi è andato a Londra e Meucci negli Stati Uniti. Questa balla dell’Italia che non ha mai saputo costruire una scienza l’ho sfatata dettagliatamente nel mio recente libro Chi sono i nemici della scienza (Lindau) e quindi non posso che rinviare a questa analisi assieme alla spiegazione delle cause che hanno prodotto il declino.
Tra le cause recenti occorre menzionare in primis le riforme sgangherate che hanno trasformato un’università e una scuola tra le migliori del mondo in un indegno colabrodo, in un apparato clientelare-burocratico-sindacale autoreferenziale in cui non vi è più né merito, né cultura, né interesse (nel senso pieno, non materiale, di questa parola). Perciò, parliamo di cose serie: dell’incapacità di adeguare l’istruzione al suo ruolo di massa mantenendo la qualità e rendendo elastico il sistema lasciandolo convivere con lo sviluppo di un settore privato. L’istruzione in Italia – che è la chiave del futuro – è caduta in mano di sindacati che hanno imposto assunzioni di massa ope legis e una logica corporativa e assistenziale sotto l’egida di un soffocante statalismo; è stata devastata da un democraticismo delirante che ha sostituito l’insegnamento con la gestione, in un proliferare di organi collegiali e attività collaterali e burocratiche soffocanti; è stata chiusa nella cappa di piombo di un ideologismo “progressista” che ha trovato la sua espressione nel pedagogismo e didattismo sviluppatosi all’incrocio tra le concezioni di Dewey e la demagogia post-sessantottina. L’istruzione va “liberata”, senza dimenticare che è in nome dell’autonomia che sono state compiute le peggiori efferatezze. Da dove vengono i 5434 corsi di laurea diversi che hanno trasformato la scuola italiana in un suk? E da dove viene, se non da un’idea fuorviante dell’autonomia, il proposito scellerato di fare di ogni scuola una “comunità educante” in cui si decide cosa e come fare in totale “libertà”? Eppure dovremmo sapere che la confusione tra la libertà e arbitrio è il contrario di ogni sano principio educativo.
Occorre distinguere accuratamente i mali specificamente italiani da quelli che non lo sono. I mali italiani sono il sindacalismo, lo statalismo, l’ideologismo. Un altro male italiano – su questo concordo completamente con l’analisi di Tinagli – è un mondo imprenditoriale miope che guarda al problema educativo in termini egoistici, chiedendo la formazione di persone capaci di svolgere le funzioni ad esso utili, e nulla più, che spende quattrini per finanziare fondazioni volte a imporre una trasformazione del sistema dell’istruzione secondo i suoi interessi e non regala un centesimo alla ricerca.
Poi però vi sono mali italiani che sono mali di tutto l’occidente. La scuola statunitense è un colabrodo peggio del nostro. La preparazione media degli studenti americani è così bassa che ormai la maggioranza dei PhD è asiatica. In Francia gli studenti non sanno più scrivere la loro lingua, bensì scrivono come ascoltano, il che funziona in italiano, non in francese. Lo stesso accade nel mondo anglosassone, anche per l’applicazione del pedagogismo “democratico” alla Lucy Calkins, secondo cui l’istruzione fonetica è una forma di abuso sui minori. Non bisogna essere provinciali e guardarsi attentamente intorno: l’Italia non si salverà dal suo declino se sommerà ai suoi mali i mali che vengono da fuori o cercherà di curarli con rimedi peggiori dei mali. Perché di una cosa siamo specialisti: nell’adottare ricette provenienti dall’estero quando ormai si sono rivelate fallimentari. Per esempio, nel progettare l’introduzione di un computer in ogni classe mentre negli Usa li tolgono perché si sono rivelati deleteri…
Vado poco d’accordo con Franco Cardini, ma quando dice che trova assurdo lamentarsi del fatto che in Italia ancora il 40% dei giovani studi il latino, concordo in toto con lui, e considero un’ulteriore esempio di miopia del nostro mondo imprenditoriale affannarsi attorno a tale dato come qualcosa da correggere. Non risolleveremo il nostro paese distruggendo le caratteristiche della cultura nazionale. E, sotto questo profilo, trovo insensata la critica “geografica”, l’attacco alle culture locali come fattore di arretratezza e chiusura. Certo, l’Italia è il paese dei comuni ma ciò fa parte della sua straordinaria ricchezza, del fatto che qui risieda il settanta per cento del patrimonio culturale mondiale, che dappertutto, anche nel più piccolo paese, vi sia un edificio artistico, una chiesa o una biblioteca che contiene autentici tesori culturali. Se in Italia tanti sanno disegnare o dipingere come in nessun paese al mondo è perché in ogni angolo si respira la “bellezza”. Occorre considerare tutto ciò come un fatto negativo, distruggerlo in nome di una globalizzazione omologante? Ma ci facciano il piacere, direbbe Totò. Il problema è esattamente il contrario. Ancorare l’educazione dei giovani a questo tessuto culturale (e, diciamolo pure, morale) in un contesto libero da pastoie ideologiche e burocratiche, avvalendosi di tutti gli strumenti offerti dalla modernità, senza scambiare metodo con sostanza, mezzi con fini. Perché questa è la sostanza della “creatività italiana” e del deprecato “individualismo”: la capacità di crescere come “persone” e non come polli da batteria. Per ora stiamo producendo polli da batteria frustrati perché siamo caduti vittime della miscela sopra descritta. Riprenderemo a coltivare i talenti se ci libereremo da questa scorza opprimente, ma per essere liberi, non per chiuderci dentro un’altra scorza, quella del tecnocratismo mediocre e omologante.
Esiste una via italiana contro la fuga dei talenti?
(Foto: Imagoeconomica)