Cosa pensa del fatto che i nostri talenti si disperdano e che, visti i bassi livelli di retribuzione per chi ha studiato, molti giovani decidono che non ne vale la pena? Sono dati preoccupanti che emergono, tra l’altro, da un recente studio di Irene Tinagli recensito su Repubblica…

Sì: in Italia molti indicatori statistici e aneddotici convergono nell’indicare che il talento non è premiato come in altri paesi. Si preferisce redistribuire la ricchezza prodotta secondo altri criteri: ad esempio i bisogni o l’anzianità, che non sempre, o addirittura raramente nel caso dell’anzianità, sono correlati positivamente con il talento.
Ad esempio, viviamo in un paese in cui il rendimento dell’investimento in capitale umano (anni di istruzione) è tra i più bassi nei paesi avanzati. In cui i fondi per la ricerca non sono in realtà pochi ma sono soprattutto allocati in modo clientelare e scarsamente correlato alla produttività scientifica dei ricercatori così come valutata dalla comunità scientifica internazionale.
In Italia contano di più le regole formali di processo, piuttosto che i risultati conseguiti, i controlli ex ante piuttosto che le valutazioni ex post. Spesso le regole pensate per evitare possibili arbitri finiscono per proteggere rendite di posizione, per uccidere l’impegno individuale e per giustificare chi fa il minimo indispensabile invece di premiare chi cerca di andare oltre il minimo.



Ma perché il talento non è premiato? Quali sono le cause di questa situazione che appare così difficilmente rimediabile?

Questa situazione è il risultato di una visione del mondo (di matrice al tempo stesso cristiana e marxiana) che solo da poco ha iniziato ad entrare in crisi nel nostro paese, ma che ancora ispira il nostro contratto sociale. Ossia la visione secondo cui il talento non è un “merito” ma una “fortuna”. Chi è “più bravo” non lo è in virtù di un maggiore impegno ma perchè è stato più fortunato, ad esempio per le condizioni genetiche e ambientali in cui è nato e cresciuto. Quello che siamo non dipende da noi ma dal contesto in cui operiamo. Se questa visione corrisponde al vero, è ragionevole un contratto sociale in cui gli individui preferiscono assicurarsi contro il rischio di avere “poco talento” e quindi preferiscono meccanismi retributivi che redistribuiscono risorse da chi ha tanto talento a chi ne ha meno.
È una visione del mondo nobile e rispettabile, ma che si scontra con il fatto che il talento non dipende solo da fortunate circostanze in cui gli individui non hanno alcun merito. Il talento è il frutto anche di investimenti costosi e impegno individuale che vanno compensati altrimenti nessuno ha interesse a fare questi investimenti e a esercitare l’impegno necessario per migliorare i talenti ricevuti.
Uso la parola talento non a caso: la parabola evangelica dei talenti che a tutti appare paradossale alla prima lettura, può proprio essere interpretata in questo senso. Il talento è ereditato senza merito, ma il merito sta nel farlo fruttare. Se non vi premio per chi lo fa fruttare il talento da pochi frutti. Non sono certo la persona giusta per spiegarne i motivi, ma è singolare che la dottrina sociale della chiesa abbia dato relativamente poco peso a questa interpretazione, enfatizzando invece le numerose altre parti del Vangelo in cui viene invece auspicata la redistribuzione indipendentemente dall’impegno.
Libri come quello di Irene Tinagli e tanti altri segnalano che il contratto sociale che non premia chi fa fruttare i talenti sta entrando in crisi e che se non modifichiamo il nostro contratto sociale nessuno ha interesse a investire nell’acquisizione di talento a meno di non voler andare all’estero. E ovviamente nessun talento straniero ha interesse a venire da noi, come dimostra la quasi totale assenza di stranieri tra i docenti e i ricercatori universitari Italiani



La nostra ricerca soffre di mancanza di finanziamenti? Che cosa non va nel sistema? E in termini di sostegno, anche finanziario alla ricerca, ritiene che sia necessario più impegno da parte dello Stato o da parte di privati?

Prima ancora di pensare a reperire maggiori risorse per la ricerca, bisogna prima imparare a spendere bene quelle che già esistono. In questo momento, ad esempio, risorse considerevoli vengono utilizzate in numerosi enti pubblici per stabilizzare precari ope legis senza nessuna valutazione del merito e senza nessun tentativo di discriminare tra chi ha talento e chi no.
Gli scienziati italiani hanno lanciato un appello al presidente Napolitano affinché i fondi per la ricerca vengano allocati solo sulla base di parametri riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, ossia mediante la cosiddetta peer review che consiste in una valutazione regolamentata, anonima e indipendente del merito scientifico di ogni progetto di ricerca. Staremo a vedere se il nuovo governo raccoglierà questo impegno e porrà fine allo sconcio della allocazione dei fondi di ricerca sulla base della contrattazione individuale tra ricercatori ed enti pubblici erogatori (il cosiddetto top down). Purtroppo non vedo segnali positivi.



In particolare, un maggiore collegamento fra centri di ricerca e realtà private, soprattutto imprenditoriali, non permetterebbe di risolvere maggiormente il punto di partenza, cioè la valorizzazione a livello lavorativo dei cosiddetti “cervelli”?

Quello che serve è liberare la ricerca dai vincoli formali che la soffocano, allocare i fondi (anche privati) secondo i metodi trasparenti previsti dalla comunità scientifica internazionale, non aver paura dell’”arbitrio” ex ante ma punire pesantemente l’abuso ex post. Ossia inserire più mercato e concorrenza ad armi pari nel mondo della ricerca, meno controlli formali che danno una immagine di correttezza, ma non riescono ad evitare gli abusi dietro le quinte.
E serve soprattutto un cambio dei mentalità di ciascuno di noi. Serve capire che è necessario correggere il contratto sociale, non solo per gli altri ma a cominciare da noi stessi in prima persona. Ossia mettersi in discussione, essere disposti a farsi valutare, non temere le valutazioni negative anche se le conseguenze non sono ovviamente piacevoli, ma rimboccarsi le maniche e correggere il tiro.

(Foto: Imagoeconomica)