Il quadro che esce dalle “Cento statistiche per il Paese” non è nuovo. Ma è di straordinaria utilità per i decisori politici, sempre che abbiano la volontà di prendere qualche decisione al riguardo dello stato dell’istruzione del Paese. Perché questi dati danno conto della bassa condizione culturale e civile della società italiana.
Il gap rispetto agli altri Paesi europei viene da lontano. All’indomani dell’Unità d’Italia circa l’85% dei cittadini era analfabeta. Il passaggio all’alfabetizzazione completa non si è ancora del tutto realizzato. Ma, come appare dai dati, il gap si riproduce ora ai livelli più alti dell’istruzione. Chi non vuole guardare in faccia a questa realtà obbietta non soltanto che gli italiani sono un popolo di indole geniale – e fin qui siamo al lascito della retorica del fascismo – ma anche che, in ogni caso, l’Italia occupa pur sempre il 7° posto sulla scala dei Paesi più industrializzati.
Ma proprio questi dati costringono a interrogarsi sull’esaurimento del modello delle forze motrici dello sviluppo italiano. Fin dagli anni ’50 si è venuto rafforzando un dualismo della struttura produttiva. La produzione volta al mercato interno si è fondata principalmente sullo sfruttamento intensivo della manodopera poco qualificata. In pochi anni ha svuotato il serbatoio contadino e meridionale del Paese, riempiendo le fabbriche del Nord di contadini attraverso l’urbanizzazione e l’immigrazione. Solo la parte rivolta verso il mercato internazionale ha puntato di più sull’innovazione tecnologica e perciò su livelli di istruzione più alti. Queste scelte di politica economica e di modello di sviluppo hanno condizionato negativamente la spinta verso i livelli superiori di istruzione. Essendo questi poco richiesti, le famiglie non hanno investito molto sull’istruzione dei figli: uno stipendio o un salario decente, più o meno, si poteva comunque conquistare, senza bisogno di studiare o studiando poco. Perciò il miglioramento del sistema di istruzione e le riforme, che altri Paesi hanno incominciato a realizzare fin dagli anni ’70 – con un’accelerazione negli anni ’90 – in Italia non si sono viste o sono comunque rimaste al palo.
L’ultima riforma attuata, e non solo progettata, della scuola superiore risale al 1923! Ora, questo modello sta segnando il passo, se è vero che il tasso di sviluppo quest’anno è dell’1%. Anche perché molti Paesi dell’ex-Terzo mondo sono in grado di gettare nella fornace dello sviluppo proto-industriale centinaia di milioni di contadini a salari irrisori e a bassissimo tasso di istruzione. Perciò il Paese rischia di rimanere in coda ai Paesi sviluppati, avendo alle spalle una schiera di Paesi in via di sviluppo e in aggressiva ascesa. Ecco di che cosa parlano questi dati: di una struttura economico-produttiva e di una società civile arretrate rispetto alle sfide del tempo presente. Continua a sfuggire alla cultura politica delle classi dirigenti (!?) di questo Paese che l’educazione, l’istruzione, la cultura sono il motore dello sviluppo economico. E che il cuore dello sviluppo economico e civile di un Paese è lo sviluppo umano.



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