La soluzione tedesca alla crisi della scuola, consistente nel non bocciare e nel non dare voti agli studenti per un certo numero di anni (di questo si sta discutendo in questi giorni negli stati federali della Germania) lascia alquanto perplessi. Non è comunque difficile misurarsi, dal versante italiano, con tale prospettiva, dato che proveniamo da un tempo, non lontano, percorso dalla stessa tentazione e massimamente rappresentato dal sistema dei debiti scolastici assegnati agli studenti delle scuole superiori, ma non assolti all’atto del passaggio all’anno successivo.
La scuola che non boccia in un certo senso l’abbiamo già vista e non è stato un grande spettacolo. Come non particolarmente edificante, d’altra parte, è l’impantanamento cui le scuole sono obbligate dall’attuale meccanismo dei corsi di recupero (è sufficiente un corso di recupero estivo per sanare la carenza di un anno?) che interviene a valle per rimediare una stortura che è a monte. E cosa ci sarebbe da rimediare a monte, posto che l’alternativa tra bocciare e non bocciare è un falso problema? A monte c’è l’impostazione culturale e didattica delle nostre scuole nelle quali, per lo più, si tiene conto di ciò che si trasmette agli alunni (insegnamento) e non sempre della qualità del sistema di ricezione degli alunni (apprendimento).
Il rapporto tra insegnamento e apprendimento è il cuore della scuola, ciò che fa della scuola un’avventura della esistenza in cui il docente spende non solo dei contenuti, ma anche una ipotesi culturale globale da proporre ai propri alunni. Questi si appassionano allo studio immergendosi con tutto se stessi nella ipotesi comunicata dall’insegnante e verificandola nel confronto continuo con ciò che accade dentro e fuori della scuola. Da questo punto di vista è entusiasmante insegnare perché ciò che si trasferisce nelle coscienze altrui è sempre più ampio di una semplice serie di dati, e allo stesso tempo si apprende con più passione quando non si è ricattati o misurati da nozioni aride e asettiche.
Ultimamente il dibattito pedagogico che si è svolto sullo sfondo delle iniziali e mai concluse riforme della scuola (Berlinguer, Moratti) e dei loro aggiustamenti (Fioroni) ha acceso l’attenzione su questo nodo, costituito, come si diceva, dal nesso tra insegnamento e apprendimento, ma lo ha risolto o lo sta risolvendo malamente. Se prima, così si è scritto e si scrive, tutta la scuola italiana gravitava sull’insegnamento (simboleggiato dalla lezione frontale), ora tutto dovrebbe essere improntato all’apprendimento (rappresentato dal laboratorio). Si prescinde dalla semplice evidenza che per avere un buon apprendimento occorre avere un buon insegnamento. La frattura, esiziale, sembra attraversare anche le due dimensioni del fare scuola di cui tanto si stanno occupando i documenti europei: l’acquisizione da parte degli alunni di nuclei di conoscenze fondamentali e l’assimilazione di competenze chiave che possano essere riconosciute e spese su un piano sopranazionale.
È giusto che la scuola italiana cominci ad occuparsi di didattica per competenze: non solo perché lo chiede l’Europa, ma soprattutto perché va in questo senso una certa domanda di formazione, fornita del necessario corredo di saperi e abilità pratiche, proveniente dai ragazzi di oggi. L’impressione è però che talvolta si cammini in una direzione incerta. Le competenze, infatti, provengono, o dovrebbero provenire da una piattaforma assodata di conoscenze e non essere svincolate dalla cultura e dal sapere proprio della tradizione nella quale si nasce e si vive. Conoscenze e competenze devono procedere insieme, pena la riduzione della scuola ad un luogo in cui si effettua l’omogeneizzazione delle menti, che magari si inseriscono bene nella realtà globalizzata senza saperla però interpretare correttamente e creativamente. E torniamo così al problema della bocciatura.
L’impressione è che la pista tedesca abbia come riferimento una scuola dei saperi formali che non osa prendere di petto la questione della maturazione nelle persone degli alunni di conoscenze personalizzate, che come tali richiedono una continua valutazione dell’insegnante. Nella scuola che si preoccupa realmente dell’alunno (dei suoi successi come degli insuccessi) si può prevedere, meglio se durante l’anno piuttosto che alla sua conclusione, un’azione di ri-orientamento che lo aiuta a valorizzare al meglio i propri talenti, le proprie risorse.
La pista italiana, se così la vogliamo chiamare, dovrebbe puntare non alla scuola unica che non si esprime sull’alunno e che rimanda all’infinito i problemi, ma su un’ampia possibilità di percorsi superiori di istruzione e formazione, di pari dignità, in cui gli insegnanti professionisti (come tali riconosciuti) si assumono la responsabilità dei propri alunni.



(Foto: Imagoeconomica)

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