Il recente D.L. n. 112 contiene alcune disposizioni che incidono, in misura anche rilevante, sul sistema universitario. In particolare, le norme principali riguardano tre aspetti: (1) il blocco del turnover nell’assunzione di personale a tempo indeterminato, (2) la conseguente riduzione di fondi per il finanziamento ordinario (FFO) delle università, (3) la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.  



Il blocco del turnover appare una norma in forte controtendenza rispetto al processo di conferimento di maggiore autonomia alle università: impedire agli atenei di utilizzare liberamente le proprie risorse per l’assunzione a tempo indeterminato del proprio personale docente sembra configurare un ritorno della regolazione centrale in un sistema dove, invece, l’autonomia appare oramai un principio irrinunciabile. La legge attualmente vigente (legge 27 dicembre 1997, n. 449) impone un limite di buon senso, prevedendo che la spesa per assegni fissi per il personale non possa eccedere il 90% del trasferimento di FFO annuale; in altre parole, le università non possono spendere in stipendi più del 90% delle risorse trasferite dallo Stato. Molte università hanno oltrepassato questo limite, spesso con politiche di assunzioni irriguardose dei limiti finanziari, generando di fatto una rigidità dei loro bilanci che appare insostenibile (alcune università spendono il 100% dei loro fondi statali in stipendi!). La stessa legge 449/97 prevedeva che, in caso di superamento della soglia del 90% del FFO, scattasse un blocco automatico per le nuove assunzioni; tuttavia, poco è stato fatto dal lato dei controlli e la situazione è spesso degenerata. La norma contenuta nel DL n. 112 probabilmente vuole porre un rimedio a questo fenomeno, ma le modalità pratiche appaiono generiche e inefficaci, perché si applicano a tutti gli atenei in modo indifferenziato. Nei fatti, il provvedimento penalizza non le università che hanno speso male negli ultimi anni, ma quelle virtuose; quelle, cioè, in cui i costi del personale hanno una incidenza limitata sui bilanci. Questi atenei, che pure avrebbero la possibilità di assumere nuovo personale, con politiche di sviluppo anche mirate, si trovano invece limitate nella propria capacità di spesa. A questi atenei andrebbero lasciati margini di autonomia maggiore, non posti nuovi vincoli!  



Il ragionamento di cui sopra si lega anche con il tema dei tagli finanziari. Il fatto che all’orizzonte si profilasse una riduzione dei finanziamenti statali per gli atenei era ampiamente prevedibile e, sotto il profilo della dinamica della spesa pubblica, si tratta di una prospettiva ineludibile anche per il prossimo futuro. In tutti i paesi industrializzati il trend in atto è quello di un contenimento della spesa pubblica nel settore universitario. Tale trend è giustificato sia dalle politiche restrittive di finanza pubblica comuni a tutti i paesi europei (e non solo); sia dalla natura di “investimento” dell’istruzione universitaria che rende opportuno un aumento dei contributi degli studenti sotto forma di maggiori tasse. I laureati, infatti, ottengono benefici in termini di migliori retribuzioni e di migliore status sociale che giustificano una loro ampia partecipazione ai costi della propria istruzione  – a questo ovviamente affiancando strumenti efficaci per sostenere un reale diritto allo studio per studenti meritevoli a basso reddito. Inoltre, con riferimento alla spesa pubblica nel settore, i paragoni con i livelli di spesa degli altri paesi europei sono inutili: nessun altro paese ha un debito pubblico come il nostro, e l’esigenza di risanare e riqualificare la spesa pubblica richiede di effettuare tagli in tutti i settori, compreso dunque quello universitario. Richiedere più spesa pubblica, oppure richiedere di non includere il comparto universitario nei tagli, appare inutile e irrealistico. Il problema, dal punto di vista della finanza pubblica (e il DL . n. 112 assume questo punto di vista), non è “se” tagliare, ma “come” e “quanto” tagliare. Se sul “quanto” ovviamente è il dibattito politico che deve guidare le scelte, sul “come” la norma desta qualche perplessità. Infatti, ipotizzare un taglio lineare che colpisce tutti gli atenei indiscriminatamente significa definire un incentivo perverso: gli atenei che hanno speso meglio negli anni precedenti otterranno una riduzione del proprio finanziamento, esattamente proporzionale a quella degli atenei che hanno speso in modo dissennato. Ritengo, invece, che si dovrebbero differenziare i criteri di riduzione delle risorse statali destinate alle università, tagliando di più agli atenei che hanno speso male e mantenendo invece stabili i livelli di finanziamento delle università “virtuose”. Il problema diviene così quello di definire i criteri migliori per effettuare questa selezione; inutile, invece, sprecare tempo a chiedere più soldi. Se anche le forme di protesta riuscissero ad evitare i tagli quest’anno, che ne sarebbe l’anno prossimo? E l’anno ancora venturo? Ipotizzare una reiterazione negli anni della protesta, per avere qualche milione di euro in più all’anno (su un fondo di oltre 7 miliardi di euro…) sembra una strada francamente poco produttiva. Se si cominciasse a ragionare su criteri di spesa ritenuti “virtuosi” il dibattito sarebbe, probabilmente, più costruttivo.  



Infine, la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni private può rappresentare uno stimolo al ripensamento di alcuni problemi delle nostre università. Prima di entrare nel merito è importante ricordare che questa proposta è stata avanzata, negli anni scorsi, da numerosi accademici nonché da vari esponenti politici di destra e di sinistra; è dunque ragionevole ipotizzare che questa idea abbia alcuni aspetti positivi. Così non è, chiaramente, per coloro che vedono nella trasformazione in fondazioni lo “smantellamento dell’università”; per essi infatti qualunque provvedimento in questa direzione sarebbe lesivo della natura “pubblica” dell’istruzione. I vantaggi che si potrebbero ottenere dalla trasformazione in fondazione sono, fondamentalmente, quelli di una maggiore flessibilità nella gestione e di un coinvolgimento di soggetti terzi, pubblici e privati, al finanziamento degli atenei. Occorre però non nascondersi dietro un dito: non è sufficiente ipotizzare la soluzione delle fondazioni per risolvere i vari problemi del sistema universitario, che rimangono aperti: modalità di reclutamento dei docenti, sistemi incentivanti di finanziamento per le performance della produttività scientifica, valutazione della qualità della didattica e della ricerca, ecc. Allo stesso tempo, però, occorre riconoscere che la trasformazione in fondazioni (che, ricordiamo, deve avvenire su base volontaria) potrebbe rappresentare, per le università più intraprendenti, la prima opportunità per differenziarsi, ricercando una maggiore autonomia ed una maggiore qualità. 

Per concludere, ritengo dunque che il DL. n. 112 contenga, tutti assieme, elementi ineludibili (il contenimento della spesa pubblica), elementi discutibili e negativi (il blocco indiscriminato del turnover), ed elementi potenzialmente positivi (la possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni). La natura del provvedimento, però, è di natura finanziaria e come tale deve essere trattato; la vera discussione intorno al settore universitario non può limitarsi ai soldi e alle regole amministrative, ma deve concentrarsi sugli aspetti “core”, come la qualità della didattica, della ricerca, della gestione delle proprie attività, la rilevanza internazionale dei nostri atenei, la valutazione dei docenti e delle strutture.

Quando si (ri)comincerà a parlare, ma soprattutto a riformare, in relazione a questi aspetti? Il timore è che, a forza di decidere (il Governo) o di lamentarsi (le università) avendo a mente solo la questione delle risorse finanziarie, si dimentichi che l’università è un’altra cosa.