La “scure” di Tremonti si abbatte anche sull’università. E il mondo accademico risponde con una protesta che, per il momento, rimane al livello verbale, ma ben presto dovrebbe trasformarsi in uno stato d’agitazione generale. La Conferenza dei rettori parla addirittura di “rischio tracollo” del sistema universitario, e già si parla di “sciopero delle lezioni”.
Ma il vero problema, secondo l’editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco, non è quello dei tagli dal punto di vista finanziario, bensì l’assenza di un progetto per il rilancio di un’università che da anni langue in uno stato di degrado.
Professor Panebianco, cosa non va nelle norme della finanziaria che riguardano il mondo dell’università?
Il problema è presto detto: ci sono solo tagli. In questo modo ci si limita a una semplice riduzione di risorse. Da quel che capisco, i tagli non sono infatti accompagnati da un’alternativa, da un’offerta forte di riorganizzazione del sistema. È solo una questione di calcoli.
Viene però introdotta la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni: non è una buona alternativa?
Avrebbe potuto esserlo, nel caso in cui le università, nell’eventuale passaggio a fondazioni, fossero state libere da condizionamenti. Ma in realtà si è capito che le fondazioni sarebbero vincolate ancora alle regole del sistema pubblico: a quel punto la fondazione diventa un bluff.
In che senso le università sarebbero vincolate?
Per esempio, un’università che decidesse di diventare fondazione non avrebbe però la possibilità di regolare ed eventualmente aumentare le tasse in base alle proprie scelte. Questo significa passare a un sistema privato ma senza averne i vantaggi. Mi pare anche che nel passaggio a fondazione non ci sia la possibilità di differenziare gli stipendi per i docenti, che dovrebbe essere invece un’arma fondamentale per attirare i professori migliori.
Qual è dunque la conseguenza di queste scelte?
Il problema fondamentale è che i tagli sono indifferenziati, e non tengono conto del merito. Gli atenei invece non sono tutti uguali: alcuni hanno ampiamente sforato i tetti di spesa, mentre altri hanno gestito bene le proprie risorse. Questi tagli non premiano chi ha fatto una buona amministrazione; anzi, puniscono tutti, e così facendo si punisce soprattutto chi ha fatto bene. Si manda ancora una volta un segnale che è tipico del nostro Paese: essere virtuosi non conviene.
I tagli generalizzati sono ingiusti proprio per questo, perché non premiano i virtuosi e sostanzialmente giustificano l’atteggiamento opposto.
Quindi niente tagli?
Non dico che non si debba tagliare. Io non condivido, ad esempio, la protesta dei rettori, perché mi sembra che vogliano proteggere lo status quo. Hanno ragione a protestare, ma solo se hanno una proposta alternativa. I tagli, se necessari, devono essere fatti, perché i conti devono tornare; ma bisognava tagliare incentivando ad essere virtuosi, anche nell’uso delle risorse. Questo mi pare che non ci sia.
Però, sul peso dei tagli, viene il sospetto che l’Economia abbia deciso di fare quello che scuola e università non hanno mai fatto. Arrivati al limite l’Economia dice: ora faccio io.
Ma la contro-domanda è: perché il ministero dell’Economia non ha elaborato insieme ai ministeri competenti le proposte? Ci sono delle specificità dell’università che devono essere prese in considerazione, se si vuole migliorare il rendimento. Se il problema è tagliare e basta, e quale sia l’impatto sul rendimento non ci interessa, il risultato sarà un rendimento nettamene più basso. E un basso rendimento non mi pare sia conveniente, nemmeno in termini puramente economici.
Per capire chi sono i virtuosi è necessario però affrontare il nodo della valutazione: come stabilire criteri certi?
I tentativi di valutazione messi in atto fino ad oggi hanno dimostrato una grande debolezza. Le classifiche che vengono pubblicate sono totalmente inaffidabili, perché la valutazione – ed è questo il nodo fondamentale – viene fatta solo sulle quantità. Per esempio: un’università può essere definita migliore in base al numero studenti-docenti. Ma questo può derivare dal fatto che quell’università attira poco! Allora quella diventa un’università ben classificata perché è un’università peggiore: proprio l’essere peggiore la premia. Una valutazione basata su criteri quantitativi e numerici ha effetti devastanti sulla qualità. Mentre invece bisogna premiare la qualità, che si misura sulla base della preparazione dei docenti e degli studenti.
Parliamo del presente dell’università: cosa non va, e cosa c’è alla base del basso rendimento attuale?
Innanzitutto il “3+2”: bisognerebbe fare una seria discussione su questo, e avere il coraggio di dire, una volta per tutte, che si è fatto un bel pasticcio. Proviamo a pensare ad esempio alla laurea triennale: che cosa sia la tesi nella triennale nessuno lo sa. In certe facoltà la si tratta come una tesi normale, al che non si capisce come possa un povero disgraziato a farsi 22 o 23 esami e in più una tesi, rimanendo in tre anni. Eppure non viene eliminata, per il semplice motivo che bisogna vendere alle famiglie che quella è una laurea, con tutta la ritualità del caso, come la discussione e tutto il resto. Si finge che sia una laurea.
Qual è la chiave del rilancio, secondo lei?
La chiave, come ho avuto modo di dire recentemente, è passare dagli esami in uscita agli esami in entrata: questa è una soluzione che vale sia per università che per la scuola superiore. Solo così, infatti, si obbligheranno studenti e famiglie a scegliere quelle scuole che permettano un’adeguata preparazione, senza la quale non potrebbero accedere agli atenei migliori. E gli atenei potrebbero finalmente selezionare gli studenti, e quindi poi offrire un’offerta migliore, imporre il vincolo di presenza, pretendere tasse più alte, passare eventualmente ai prestiti d’onore, il tutto su una popolazione selezionata e frequentante.