Come sosteneva Federico Caffè, l’Italia non è mai riuscita ad avere una vera politica economica. Questo ha sempre reso il ministero dell’Economia (anche nei suoi periodi di tripartizione tra dicasteri diversi) più un luogo di raccolta e compensazione dei desideri, dandogli negli ultimi anni una sorta di austera funzione di programmazione e controllo. In quanto tale, tende ormai a preoccuparsi molto poco della dimensione dei risultati, concentrandosi sui cosiddetti “cordoni della borsa”. Diviene quindi paradossale che un ministero votato al controllo della spesa sia oggi il vero interlocutore che governa l’università italiana. Non è certo responsabilità di questo governo, poiché si tratta di un’evidente linea di continuità con quanto avvenuto nel breve governo Prodi, quando ad un ministro ad altro affaccendato (l’on. Mussi) si è sostituito Tommaso Padoa Schioppa, non certo tenero verso l’università. Questa situazione sta per prendere nello sviluppo del Dpef connotazioni paradossali, nella completa indifferenza dei media, ma soprattutto di quelle anime della maggioranza che hanno sempre fatto del capitale umano un elemento distintivo.
I provvedimenti che hanno già generato molta inquietudine nel mondo universitario sono diversi. Di quello più criticato, soprattutto da parte del sindacato, sono in verità personalmente contento, poiché apre la strada ad un diverso modello di governance ed è la previsione che le università possano adottare un modello di fondazione di diritto privato. Gli altri configurano una specie di scure su bilanci e strategie, ad esempio riducendo del 40% l’entità dei trasferimenti da parte dello Stato per il funzionamento delle università, e re-introducono un blocco del turnover, consentendo l’accesso ad una sola persona ogni cinque in uscita (si badi bene, per testa e non per valore economico equivalente; di fatto soffocando il ricambio).
Si può discutere a lungo sulla reale o presunta inefficienza delle università, tuttavia, come componente del Consiglio di Amministrazione di uno degli atenei grandi, ma più probi nella gestione, non sono tanto incline a lanciarmi in una consueta filippica sull’importanza della Cultura e sul ruolo che in essa il sistema universitario gioca per tentare di proteggere lo status quo. Piuttosto devo dirmi completamente insoddisfatto dell’assenza, pur in un quadro decisionale volto a contenere l’investimento pubblico nell’università che può essere legittimo, della capacità di articolare un vero e proprio progetto di riordino dicendo con chiarezza come ci si pone rispetto alle conseguenze delle linee tracciate, di fatto, dal Ministro Tremonti:
- le università ridurranno la propria offerta didattica e l’impegno in ricerca;
- le università alzeranno in modo sostanziale le tasse universitarie per renderle vicine al valore reale del costo sostenuto (si consideri che le tasse universitarie coprono oggi il 20% del bilancio di un ateneo);
- la carriera universitaria perderà ulteriore appeal e sarà più complesso il reclutamento di persone motivate e con potenziale;
- la scelta del modello della fondazione non avrà grandi impatti poiché in un quadro economico – per essere ottimisti – di “non sviluppo” sarà difficile individuare partner privati disposti ad investire pesantemente in un’istituzione così depauperata (non si finga di non sapere che il differenziale di investimento in ricerca nel nostro paese deriva dalla assoluta insensibilità delle imprese private…).
In un mondo di adulti e di politici responsabili avrei apprezzato che qualche esponente del governo avesse consapevolmente spiegato che questo quadro è quello al quale si sta pensando, rendendo le famiglie consapevoli della necessità di risparmiare di più se vorranno iscrivere i loro figli all’università nei prossimi anni. L’impressione però è che anche questo governo, non avendo la forza di definire una visione programmatica del quinquennio, proceda come di consueto a redistribuire risorse prendendo dove è più facile (e nessuno si scandalizza se si tolgono risorse all’università) e investendo dove più conviene politicamente e non in ottica di sviluppo della ricchezza collettiva.
Mi sarei aspettato tutt’altro, ovviamente, cioè un quadro chiaro del nuovo modello di università cui si vuole tendere, possibilmente caratterizzato da meccanismi di competizione virtuosa e ispirato alla libertà di scelta individuale, le cui componenti avrebbero potuto essere:
- abolizione del valore legale del titolo di studio;
- possibilità per le università di determinare un prezzo per il servizio che consenta l’equilibrio di bilancio attraverso l’adozione obbligatoria di un modello di contabilità generale di tipo reddituale;
- passaggio ad un finanziamento indiretto attraverso la contribuzione alle famiglie, invece che il finanziamento diretto con il Fondo di Finanziamento Ordinario (in sostanza una sorta di voucher);
- esplicita considerazione della mobilità sul territorio come uno dei meccanismi di concorrenza, attuata attraverso un investimento diretto nell’edilizia abitativa per studenti con merito e condizioni economiche da parte del governo centrale con compartecipazione regionale;
- una finestra quinquennale di armonizzazione tra i due sistemi all’interno della quale ogni ateneo definisca il processo di transizione negoziando con il governo le risorse integrative;
- costituzione di un organismo, a forte impatto sui media, di rendicontazione annuale del sistema universitario con istituzione di un sistema di indicatori;
- previsione di meccanismi sociali di intervento per la gestione della possibile chiusura in tale quadro di un numero rilevante di atenei non in grado di sostenersi.
Dov’è tutto questo? Dove sono le idee di questo governo sull’importanza dell’individuo e del suo capitale umano? Dov’è le retorica sull’importanza dell’investimento in conoscenza? Non c’è nemmeno una flebile traccia, forse perché si ritiene possibile risollevare il nostro declino economico con politiche neo-colbertiniste o forse, più semplicemente, perché nella stanza dei bottoni prima delle idee contano purtroppo sempre le considerazioni di bottega…