Difficile trovare qualcuno sul mercato del dibattito pedagogico che sostenga che l’esame di stato non debba essere serio. Pertanto non è neppure serio che il Gruppo di Firenze si autocertifichi membro esclusivo dell’ala combattente della serietà, tutti gli altri essendo relegati nelle retrovie della leggerezza e del lassismo. E’ opportuno, allora, incominciare con un’elementare terapia del linguaggio. Quand’è che un esame di stato è serio? Quando è in grado di certificare con rigore conoscenze, abilità e competenze dell’esaminato. Ci sono due condizioni perché questa operazione sia seria.
La prima: che esistano standard e strumenti di misura definiti in sede pubblica. Non è certo la singola scuola autonoma che può decidere sugli standard e sugli strumenti. L’autonomia non significa anarchia valutativa, bensì e solo che le scuole possono definire insieme alle famiglie e ai ragazzi tempi e metodi per conseguire il livello previsto dagli standard. La seconda condizione: che i misuratori siano certificati essere in possesso, essi per primi, degli standard e siano capaci di usare gli strumenti di certificazione.
Nella scuola che per convenzione chiameremo “gentiliana” queste due condizioni c’erano. Piuttosto che piangere sulla loro scomparsa, è necessario chiedersi perché sia accaduta. Un sistema educativo che era stato costruito per pochi, venne travolto, a partire dal 1962, anno della scuola media unica, da un ingresso di massa di studenti e quasi subito di insegnanti. I “programmi” svanirono a poco a poco quali standard inoppugnabili, gli insegnanti soffrirono di un abbassamento degli standard, a causa della dequalificazione di quelli universitari. Un egualitarismo lassista, un enciclopedismo maldestro e malinteso, il cedimento demagogico e irresponsabile delle autorità scolastiche e della politica alle pressioni sindacalistiche generarono le condizioni per il collasso del sistema di esami di stato. Non è stato il frutto di una congiura, ma dell’accumulazione di demagogia, irresponsabilità, sindacalismo corporativo.
Il sistema educativo nazionale si era giustamente allargato all’accoglienza di una fascia più larga di società civile, ma perdeva iniquamente e vistosamente in qualità. La sfida di una scuola di massa e di qualità è stata perduta dai sistemi educativi occidentali, in modo grave in Italia. L’abolizione delle Commissioni esterne, dopo che già era stato diminuito il carico finale da sottoporre a esame, prese atto fatalisticamente che gli esami di stato non erano più in grado di certificare il livello effettivamente raggiunto. Il sistema educativo cessò di essere fattore di sviluppo e motore di mobilità sociale.
I Ministri dell’istruzione si sono piegati, fin dagli anni ’70, a questa deriva. Non è fuori luogo osservare che nello stesso periodo, a partire dal 1976, con la stessa logica la curva del debito pubblico incominciò a impennarsi per raggiungere le vette di oggi. Il debito pubblico che sale inesorabile e il sistema educativo che sta andando al collasso sono l’autobiografia del Paese, della sua società civile, della sua classe dirigente. Mentre dagli Usa ai principali paesi europei si correva ai ripari, già a partire dagli anni ’70, in Italia il rinvio è divenuto la sostanza delle politiche.
Alle vedove in gramaglie del sistema gentiliano si può solo chiedere di non partire dal tetto, ma dalle fondamenta, che devono essere ricostruite: definire standard nazionali/europei, certificare il contenuto dello zaino di ciascuno, preparare gli insegnanti, conferire alle scuole ogni forma di autonomia in relazione al compimento dell’itinerario inevitabilmente personale di ciascuno, misurare l’offerta e la capacità effettiva delle scuole autonome di mantenere le promesse con un’Authority esterna di valutazione. Abolire il valore legale del titolo di studio non significa rinunciare a certificare il valore reale effettivo. Semplicemente serve a non trasformare burocraticamente in “pieno” il “vuoto” che c’è. La formula medievale “ego te baptizo piscem” pronunciata dal frate davanti al pollo per trasformarlo nel pesce del venerdì è ciò che propongono oggi i difensori del valore legale. Il guaio è che si tratta di “disvalore legale”.