Un editoriale della newsletter di Diesse (Didattica e Innovazione Scolastica), dedicato agli esami di stato, ha sollevato diverse reazioni. Tra le tante, decisamente negativa appare l’opinione espressa da Sergio Casprini su L’Occidentale (strumento di informazione quotidiana) del 3 Luglio. Sostiene Casprini, che fa parte del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, che è dubbia, se non dannosa, “una deregulation che affiderebbe all’autorefenzialità dei docenti di ogni istituto il compito di giudicare i propri studenti, con il contentino di una prova nazionale, di fatto secondaria rispetto alle prove fatte in casa”.



Ma che cosa proponeva l’editoriale tanto discusso? Nientemeno che di abolire gli esami di stato conclusivi dei percorsi di scuola superiore e di sostituirli inaugurando una strategia in quattro mosse:

  • abolizione del valore legale del titolo di studio: aprirebbe una fase di sana concorrenzialità tra scuole, impegnate ad offrire proposte formative di qualità;
  • istituzione di una prova conclusiva dei corsi di scuola secondaria superiore a cura dei soli docenti della classe, per la verifica e la certificazione delle competenze apprese;
  • istituzione di una prova di valutazione nazionale a conclusione dei suddetti corsi per l’accertamento dei livelli di apprendimento nelle discipline fondamentali (affidata all’Invalsi come quest’anno per le terze medie);
  • abolizione dell’esame di Stato e sostituzione del diploma con un documento di semplice certificazione delle conoscenze e delle competenze.

Lo spunto polemico di Diesse nasceva dalla constatazione che l’esame di stato nazionale non è già più né una prova nazionale, articolandosi in 912 prove diverse per i 912 indirizzi di studio nella scuola superiore, né una prova seria e controllabile in maniera uniforme sul territorio dello Stivale, come hanno dimostrato, tra le altre cose gli errori nei testi offerti agli studenti dalla commissione centrale che preside l’enorme macchina ministeriale.



La serietà della valutazione di un percorso scolastico, ne siamo profondamente convinti, non si misura dal grado di centralismo che viene immesso nella prova o nel test, quanto nella capacità dello strumento di recepire il contenuto di cultura (conoscenze oggettive e capacità di maneggiarle) introdotto nelle menti e nelle coscienze degli alunni dagli insegnanti. Se l’esame di stato (o di maturità) intende adeguarsi alla realtà di una scuola che cammina (potrebbe farlo molto di più) verso l’autonomia dell’offerta educativa, poste le norme comuni e i livelli essenziali di apprendimento che lo Stato ha il diritto-dovere di pretendere, non può che riformularsi nella direzione che umilmente abbiamo indicato.



Chi, se non gli insegnanti della classe, hanno la possibilità di valutare quanto gli alunni hanno effettivamente appreso di ciò che è stato loro insegnato?

E nello stesso tempo chi, se non un ente esterno mediante una prova nazionale, può rivendicare la giusta pretesa di valutare un livello omogeneo di conoscenza acquisita dagli alunni delle diverse scuole (licei e istituti) in cambio di una certificazione che faccia testo presso l’università o il datore di lavoro?

Sono argomenti certamente da approfondire, ma senza alzate di scudi previe o arroccamenti sui miti di un tempo che fu. La serietà oggi è tanto sviluppo del merito quanto valorizzazione del metodo. Metodo vuole dire autonomia, libertà di educazione riconosciuta ai docenti, capacità di mettere insieme insegnamento e apprendimento e, soprattutto, abbandono del mito del pezzo di carta uguale per tutti. Per questo abbiamo scritto che a monte di tutto il discorso dovrebbe esserci la messa in discussione del valore legale del titolo di studio.