La proposta di Walter Passerini su Il Sole 24 Ore o la notizia dell’esistenza di questa proposta di altri – quella di premiare in denaro i risultati degli studenti – non mi convince, per molte ragioni, benché io non creda di appartenere al partito degli “euroscettici” o dei “moralisti”. I moralisti sarebbero quelli che pensano che lo studio è un dovere.
Intanto: dove starebbe la novità?! Molti di noi, che hanno fatto gli studi superiori e le università già dagli anni ’60 del secolo scorso hanno goduto di cash per le loro performances: si chiamavano borse di studio, presalario, niente tasse scolastiche e universitarie. La differenza rispetto ad allora è che il valore in denaro di quel cash si è drasticamente ridotto.
Negli anni ’60 un presalario annuale valeva 360.000 lire. La stessa cifra, tenuto conto di più di 40 anni di inflazione, oggi si tradurrebbe in 2.000 euro al mese! I lettori esperti facciano i conti!
Ci si poteva campare. In più funzionava – anzi era il presupposto – un vincolo di reddito familiare: si premiavano i meritevoli, ma poveri di mezzi, così come prevede la Costituzione. Ma dietro a queste due differenze stava una terza, che oggi è completamente saltata: che i paradigmi di valutazione del merito e le scale di voti erano sostanzialmente omogenei su scala nazionale, per territori, per indirizzi e all’interno di ogni scuola. Come dovremmo premiare oggi i “migliori”, se la lettura degli ultimi risultati degli esami di Stato ci propone un quadro in cui al Sud l’esame di maturità ha attribuito i voti più alti, mentre nel Nord Est c’è il più alto numero di respinti? E che dire se i risultati delle valutazioni Invalsi e quelle di Ocse-Pisa danno un quadro rovesciato? Dobbiamo dare il premio in denaro in base ai voti interni “italiani” o a quelli “esterni”, italiani o internazionali?
È evidente che il cash si trasformerebbe in un’ennesima misura di assistenzialismo corrotto e corruttivo. Corruttivo, perché premia una complicità negativa tra scuole e alunni, volta a drenare risorse dallo Stato, sottraendole ai meritevoli e privi di mezzi, per conferirle ai più furbi, non ai più poveri e meritevoli. Tutto all’ombra, si intende, del valore legale del titolo di studio.
Ma ciò che è meno convincente è la filosofia che fa capolino tra le proposte. Essa muove dall’accettazione di un dato di fatto considerato immodificabile: che il sistema educativo è sempre meno in grado di motivare allo studio. Ora, se la “scientia” diventa “tristitia” , come ha denunciato papa Ratzinger nel suo famoso intervento virtuale all’Università La Sapienza di Roma, se gli insegnanti non sono capaci di far crescere il desiderio e l’amore per la verità, se la conoscenza non diventa costruzione umana di sé, come si può pensare che quattro spiccioli possano muovere al sapere?
Se il sistema rinuncia al suo ruolo educativo essenziale, nessuna motivazione sarà mai acquistabile con denaro sonante.