La scuola si regge, a ben vedere, sulla delicatissima dinamica del passaggio delle conoscenze da una persona all’altra. Se eliminiamo questo fattore troviamo il vuoto spinto, magari rappresentato dalle più aggiornate teorie pedagogiche relative alla comunicazione o alle tecniche per insegnare. Ma insegnare al di fuori di un rapporto umano non ha senso.



L’uomo, l’alunno, non è né una tavoletta di cera su cui scrivere, né un animale da addestrare. È dotato di ragione e coscienza, cioè di una apertura alla realtà che gli permette di interrogarsi sul senso delle cose che incontra, comprese quelle che gli vengono proposte a scuola dagli insegnanti o dai libri di testo. Prevale oggi una versione funzionalistica dell’educazione, entro la quale lo scopo dell’educazione scolastica è quello di integrare l’individuo nella vita sociale e produttiva e renderlo attivo in essa. Su questo piano, l’insegnamento è destinato a diventare in molti casi “addestramento”.



Non è un caso se progressivamente, nella letteratura pedagogica e dunque nella scuola reale, l’accento si è spostato dall’insegnamento all’apprendimento. Ma l’elisione di uno dei due poli del binomio insegnamento-apprendimento non ha alcun senso: infatti non esiste apprendimento (intenzionale da parte della scuola e non sempre prevedibile da parte del singolo alunno) senza un insegnamento. Ne deriva che occorre ripensare le caratteristiche dell’insegnamento e dell’apprendimento, a partire da una unità o meglio da uno scopo: quello della introduzione alla realtà.

La realtà non è solo ciò che si vede, ciò che si può manipolare e consumare; essa comincia ad essere compresa quando se ne afferma il significato. Paradossalmente la realtà è l’obiettivo più lontano dall’azione educativa che la scuola è chiamata ad accendere: se ne parla, se ne prendono in considerazione i frammenti fisici, matematici, letterari. Eppure la realtà intera è come se non esistesse.



Che senso ha, infatti, analizzare fino ai minimi particolari un poema letterario e possederne tutti gli aspetti formali, se poi non si è in grado di farne esperienza diretta, cioè di mettere in rapporto le intuizioni e le suggestioni di un certo autore con la bellezza di certe raffigurazioni artistiche o con la grandiosità del cosmo che lo studio della scienza fisica riesce a trasmettere ad occhi attenti?

Conoscere significa unire, connettere, collegare. La mancanza di nesso con la realtà totale ha generato la disunità pedagogica e didattica di insegnamento e apprendimento che non si può recuperare se non è unito il soggetto che educa, se non è unita in se stessa la persona dell’adulto che educa.

La scuola della conoscenza è il modello verso cui sembrano voler camminare i sistemi scolastici più aggiornati e all’avanguardia (vedi anche le recenti ricerche Ocse). Dopo anni di prevalenza di una scuola puramente inclusiva si sta facendo largo anche in Italia l’esigenza, che si percepisce in controluce nelle riforme succedutesi negli ultimi anni, di una istruzione di base e superiore costruita su obiettivi conoscitivi che gli alunni possano trasformare in competenze personali, spendibili nella prosecuzione degli studi o nel campo lavorativo.

Chi sostiene che le competenze allontanano dalle conoscenze sbaglia, ma chi pensa che la scuola della conoscenza si possa realizzare solo cambiando metodi di insegnamento sbaglia due volte. Se deve cambiare qualcosa nei percorsi di formazione è il ruolo dell’adulto che deve tornare ad essere centrale, non per motivi di ruolo, ma di posizione nell’atto educativo. Occorre aiutare gli insegnanti a ritrovare la forza e la capacità di proporre una ipotesi di introduzione alla realtà, non in astratto ma nella didattica, attraverso le discipline che insegnano.

Lo si può fare valorizzandone la figura con gli strumenti normativi, ma soprattutto ampliando spazi e occasioni affinché possano mettere a tema il loro lavoro e il soggetto che sono quando insegnano. C’è molto da ricostruire, ma anche una buona tradizione da recuperare: non è tutto da buttare ciò che circola nella scuola.