Ministro Gelmini, il tema educazione è uno degli elementi centrali intorno a cui da sempre ruota il messaggio culturale del Meeting di Rimini. È dunque naturale che ora gli occhi siano puntati su di lei e sulla sua presenza a questo evento: qual è il messaggio principale che vuole lanciare da qui? 

Io sono profondamente convinta che il sistema-Paese, la nostra capacità di competere a livello internazionale e ancor più la possibilità di essere Paese e nazione dipenda sempre più dalla scuola e dal momento formativo. In questo – e il Meeting lo indica chiaramente – si vede la straordinaria attualità del messaggio del Santo Padre quando insiste, a ragione, sull’importanza di quella che egli ha chiamato “emergenza educativa”. Spesso si parla di penuria nelle risorse economiche; però io ritengo che la scuola non possa essere ridotta a un mero problema ragionieristico e contabile. Siamo di fronte ad una perdita di senso della scuola, e quindi dobbiamo interrogarci sul tipo di sistema educativo che chiediamo e su qual è la scuola di cui i nostri ragazzi necessitano per affrontare con il giusto bagaglio di conoscenze e di esperienza il loro percorso di vita. 



Qual è allora la priorità per impostare questo recupero di senso della scuola? 

Innanzitutto io registro la necessità di rivedere il reclutamento dei docenti. Bisogna assolutamente rimettere al centro la figura dell’insegnante, a cui nel tempo è stata tolta la fondamentale funzione sociale. Credo quindi che rimotivare gli insegnanti sia un aspetto centrale e veramente prioritario. Accettare ancora che gli insegnanti avanzino in carriera solo per anzianità è una cosa oltremodo limitante e poco stimolante. 



Parlando di carriera, c’è spazio anche per una contrattazione differenziata per gli insegnanti? 

Sì, c’è spazio per misure che vadano nella direzione di una differente contrattazione. E c’è spazio anche per la valutazione degli insegnanti e quindi la possibilità di premiare coloro che raggiungono i maggiori risultati, soprattutto in termini di qualità dell’apprendimento dei ragazzi. 

Intanto, per quanto riguarda la formazione iniziale, il governo ha deciso di abolire le scuole di specializzazione, le cosiddette SSIS: quali alternative proporrete? 

Abbiamo istituito un gruppo ristretto di lavoro sul tema della formazione degli insegnanti per arrivare alla definizione di un percorso di praticantato o tirocinio dei docenti. Abbiamo deciso di bloccare le SSIS perché non ci sembrava moralmente corretto chiedere, dopo la laurea, altri due anni di formazione sapendo da subito che le graduatorie sono chiuse, e che quindi questi ragazzi usciti dalle SSIS non avrebbe avuto alcuno sbocco lavorativo. La vera alternativa è appunto il tirocinio. 



Quando si parla di docenti, in termini soprattutto di valutazione e carriera, sappiamo bene a quale levata di scudi si va incontro, dall’opposizione e, soprattutto, da parte dei sindacati. Come evitare un nuovo scontro ideologico su questo tema? 

Fin dal mio insediamento ho auspicato che si mettesse da parte lo scontro ideologico che da tempo penalizza la scuola e che ha sostanzialmente ingessato il Paese. Attiene alla responsabilità di ciascuno fare la propria parte per migliorare le cose, perché la difesa dello status quo sarebbe un errore imperdonabile. Dopo il superamento delle ideologie, oggi è il tempo del pragmatismo e delle scelte condivise. Il governo è stato eletto dai cittadini e ha dunque la responsabilità di decidere, ma ha l’umiltà di sapersi e di volersi confrontare, sia con l’opposizione che con le parti sociali. Si parla spesso di un autunno caldo, con manifestazioni e occupazioni. Io mi auguro invece che prevalga un autunno di responsabilità, perché anche le parti sociali sono chiamate a dare un contributo per migliorare le cose. 

Allo stato attuale, il nodo principale delle critiche da parte sindacale è il problema dei tagli alla scuola contenuti nella manovra economica. Cosa risponde? 

Non è accapigliandoci sulla scarsità, vera o presunta, delle risorse che si dà una mano all’Italia a ripartire. Occorre riqualificare la spesa pubblica, introducendo flessibilità nella spesa e nelle normative. Per fare questo è necessario la collaborazione di tutti: i cittadini si aspettano che ciascuno faccia la propria parte. 

In effetti i dati di raffronto internazionale dicono che i sistemi scolastici migliori non sono quelli che spendono di più. 

Questo è il punto: bisogna smantellare il luogo comune in base al quale la scuola sia di qualità laddove sia costituita da molte ore e dove si investano molte risorse finanziarie. In realtà la nostra esperienza ci dovrebbe convincere del fatto che non è automatico che a questo corrisponda l’aumento della qualità, e i dati dei raffronti internazionali sono appunto lì a dimostrarlo. Preferisco una scuola che non si interroga su come avere più soldi, ma su come spendere meglio ciò che ha già a disposizione (al limite discutiamo su come liberare le risorse), e al tempo stesso una scuola che scelga come dare più peso specifico ad ogni singola ora di insegnamento. 

Alcuni giorni fa un editoriale di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera ha rilanciato l’idea di una scuola come base per una rinnovata identità nazionale. Ma c’è un però: come fare in modo che questo pur nobile intento non si trasformi invece in una rinnovata visione centralistica del sistema scolastico? In Italia abbiamo un apparato ministeriale che fa troppo, non troppo poco…

Sono anch’io convinta che il ministero dell’Istruzione dovrebbe essere sottoposto a una grande cura dimagrante. Proprio per questo motivo abbiamo istituito un ufficio per la semplificazione amministrativa e normativa e per la verifica delle riforme. Questo Paese troppe volte dimentica il numero di leggi e di provvedimenti che approva in ogni settore, in modo particolare nella scuola e nell’università. Dobbiamo cercare di avere una normativa non confusa, riducendo drasticamente l’eccesso di norme e decreti, ma limitandoci al minimo indispensabile. Dobbiamo agire per sottrazione e non per somma, andando ad eliminare aspetti ridondanti, bizantinismi normativi che rendono facile il lavoro solo per gli avvocati e per chi vuol fare ricorso. 

Ridurre è anch’esso un modo per riformare il sistema. Spesso però si rileva il rischio di eccedere in riforme continue: come evitare questo? 

Sarebbe buona norma avere un ufficio che si occupi di testare l’effetto delle riforme, altrimenti ognuno si appassiona alla propria riforma ma poi non se ne guardano mai gli effetti reali. Avere buona memoria storica e ricondurre ad unità la normativa è un modo per rendere la normativa stessa coerente rispetto alle necessità. 

A proposito di semplificazioni: si è parlato di ritorno al maestro unico. È vero? 

All’interno del piano programmatico stiamo valutando anche questo aspetto, anche perché obiettivamente, al di là della razionalizzazione, un unico punto di riferimento educativo mi sembra una scelta migliore dal punto di vista pedagogico. 

Lasciando da parte le polemiche un po’ “estive” rilanciate in questi giorni dai giornali a proposito di una presunta discriminazione verso i docenti del Sud, resta comunque il fatto che il tema del federalismo interessa anche la scuola: in che modo? 

Il federalismo deve essere l’occasione per coniugare standard qualitativi uguali per tutti, garantendo ai ragazzi di tutta Italia la possibilità di accedere a un’istruzione dignitosa. Bisogna però valorizzare le differenze, e anche la cultura del territorio. Ad esempio nella formazione professionale bisogna tenere presente le peculiarità del settore produttivo locale. Non è un modo di smantellare, ma di ridare efficienza attraverso la responsabilizzazione dei diversi livelli, secondo il principio di sussidiarietà.