Ad agosto, con un editoriale accorato sul Corriere della Sera, aveva lanciato un vero e proprio «grido di dolore» (così lui stesso lo definì) sulla situazione della scuola italiana, segnata dal difetto principale di essere «senz’anima». Ora, alla luce dei dati dell’Ocse che ancora una volta bocciano la nostra scuola, Ernesto Galli della Loggia torna a discutere di istruzione, e di come l’opinione pubblica percepisce il problema.



Professor Galli della Loggia, i dati Ocse danno la solita sentenza sulla nostra scuola: bocciata. Che significato hanno questi dati?

I dati hanno il valore di fotografare la scuola italiana, e la loro lettura non ha possibilità di equivoco. Siamo un sistema d’istruzione agli ultimi posti nell’area dei Paesi che rientrano in questa classifica, per le ragioni che gli stessi dati illustrano bene. Non è un problema di ammontare complessivo della spesa, ma è un problema di “modo” della spesa. C’è infatti un eccesso di insegnanti, che si trovano quindi ad essere malpagati; e si sa che se una professione è malpagata non attira i migliori. Il tutto a causa di quel demenziale egualitarismo che non prevede nessuna premiazione del merito.



Chi, secondo lei, ha la maggiore responsabilità per il fatto che sia venuta a crearsi questa situazione?

La scuola, come molte altre cose pubbliche in Italia, da alcuni decenni è nelle mani dei sindacati, che sono tra i più evidenti responsabili – soprattutto la Cisl, che come si sa è il sindacato più forte nel pubblico impiego – dello sfascio dello Stato italiano. Il loro unico interesse economico – cioè l’interesse personale dei gruppi dirigenti sindacali che devono accrescere i propri introiti – è aumentare il gruppo degli addetti per accrescere le quote di iscrizione che incamerano, in quella maniera, a tutti nota, che non si fonda sull’adesione sistematica e ripetuta dell’iscritto, ma che una volta data rimane poi a vita, assicurando così l’afflusso di introiti. Eccoli qua i responsabili.



Di fronte alla crisi della nostra scuola si propongono molte ricette: da dove a suo modo di vedere bisognerebbe ripartire per ridare qualità al sistema? Qual è cioè la priorità?

Io penso che il buon senso ci dica che innanzitutto bisogna fare il contrario di quello che si è fatto negli ultimi trent’anni: se una cosa ha determinate caratteristiche che non la fanno funzionare, bisogna per prima cosa eliminare quelle caratteristiche. L’autonomia, ad esempio, o meglio la finta autonomia, si è rivelata un disastro: o l’autonomia viene data per intero, cioè a livello amministrativo, o non vale. È pronta l’Italia a dare al singolo preside un gruzzolo di soldi da spendere come meglio crede, ad esempio per reclutare professori migliori? Se non è questo, allora basta con l’autonomia.

Poi, cos’altro bisogna cambiare?

Bisogna poi piantarla con tutte le attività extra-curricolari che affollano le giornate degli studenti italiani, distraendoli dall’apprendimento delle cose che contano: le gite, le chiacchiere, le proiezioni cinematografiche, le conferenze sulla pace e così via. Tutte cose inutili, che vanno eliminate. Infine, cercare in tutti modi di diminuire il numero dei professori, introducendo aumenti degli stipendi e incominciando innanzitutto col dare dei premi di merito.

I dati sulla spesa nella scuola italiana cadono proprio nel momento in cui da più parti si alzano proteste contro i tagli all’istruzione: cosa ne pensa di queste proteste?

Il principale problema che impedisce un cambiamento in questo campo è il fatto che nella scuola si è ormai formata una communis opinio protestataria, pronta a scendere in piazza contro i tagli e contro qualunque cambiamento. Non per nulla non c’è stato ministro dell’Istruzione negli ultimi quindici anni che non abbia dovuto fare i conti con rivolte periodiche e sistematiche. Questo è colpa dell’opinione pubblica e dei giornali, che invece di stigmatizzare e dire le cose come stanno, sono corrivi e attratti dall’idea che chi protesta ha sempre ragione. Basta vedere come i giornali romani hanno riportato l’iniziativa presa dai professori di alcune scuole di andare in classe listati a lutto, per protestare contro i tagli: tutte cose che meriterebbero stigmatizzazione e ridicolizzazione, e che invece i giornali trattano con grande serietà.

Come fare allora per sensibilizzare correttamente l’opinione pubblica sul tema scuola?

Ci vorrebbe un cambiamento di punto di vista, soprattutto nei giornali e in chi ha ancora la capacità e la voglia di ragionare sui dati di fatto reali. Nella scuola e nell’opinione pubblica c’è molta stanchezza nei confronti di questo decadimento del sistema d’istruzione, e c’è effettivamente desiderio di una svolta; disgraziatamente, però, non c’è ancora chi dà voce a questo desiderio. Manca, potremmo dire, l’organizzazione di questo stato d’animo. Quindi prevale l’altro stato d’animo, quello protestatario, quel residuato “democratico-progressista” di un orientamento dell’opinione pubblica che si trascina stancamente da 20-30 anni a questa parte.

Come le sono sembrate le reazioni al suo editoriale del 21 agosto dal titolo «Scuola: la crisi di un’istituzione»?

Non mi pare che abbia generato dibattito: hanno risposto i ministri Gelmini e Tremonti, ma per il resto non mi sembra che ci sia stata un’opinione pubblica reattiva. Certo, io ho ricevuto molte mail di lettori che hanno espresso opinione di consenso; pubblicamente invece c’è un fortissimo ritardo del ceto intellettuale diffuso, di quel milione o due di persone che costituiscono la classe dirigente, che hanno una fortissima ritrosia a chiamare le cose con il loro nome, e a prendere il toro per le corna. Ho molto apprezzato invece quanto detto dal ministro Gelmini, che ha cercato di dire almeno delle cose vere, e di delineare com’è la situazione secondo il suo punto di vista.

Quindi è più un problema di intellettuali che non di società civile?

Anche della società civile: nel Mezzogiorno, ad esempio, la reazione di fronte ai dati che descrivono una situazione di ritardo non è stata quella di dire “sì, effettivamente, bisogna darsi da fare”, ma di protestare dicendo che il ministro è razzista. Quei dati però, soprattutto sulla scuola al Sud, non li ha inventati il ministro. Invece di guardare in faccia la realtà si fa in modo che tutto diventi oggetto di “polemicuccia”.