Quest’anno gli studenti stranieri che frequentano la scuola italiana hanno sfondato il muro delle 600mila unità. Aumentano al ritmo di 70mila all’anno, sono originari di 190 Paesi. Romeni, albanesi e marocchini le tre nazionalità più rappresentate, che insieme formano quasi la metà del “pianeta stranieri”. In termini percentuali rappresentano quasi il 7 per cento del totale, in dieci anni sono decuplicati . Due terzi sono arrivati dall’estero con i genitori o in seguito ai ricongiungimenti familiari, gli altri sono nati e cresciuti nel nostro Paese, conoscono la nostra lingua e, seppure con diverse connotazioni, hanno da tempo familiarizzato con la cultura e la mentalità italiane. La quasi totalità di questo universo giovanile è destinato a rimanere qui: in questo senso la scuola può diventare il più importante laboratorio per costruire una convivenza multietnica in un Paese che conta già 4 milioni di stranieri e che, piaccia o non piaccia, vedrà certamente aumentare questo numero nel breve e medio periodo.



Perché questo accada sono necessarie due condizioni: massicci investimenti da destinare all’insegnamento della lingua italiana e una proposta educativa forte nel segno dell’integrazione. Mentre il primo aspetto richiede soprattutto uno sforzo in termini economici e di personale (interpreti, facilitatori linguistici, mediatori culturali, sussidi didattici) che finora è stato inadeguato alle crescenti necessità, il secondo interpella responsabilità e capacità dei docenti, troppo spesso succubi di una vulgata prevalente e fuorviante. Secondo la quale il problema principale è “valorizzare le differenze” in nome del multiculturalismo, piuttosto che offrire una bussola da cui i giovani stranieri possano ricavare orientamenti sicuri.



Presentare i fondamenti della cultura occidentale, il contributo che ad essa è venuto dalla tradizione classica, da quella cristiana, da quella liberale e dalle altre che hanno fecondato l’Italia non è una scelta pedagogica opzionale, ma la mission alla quale applicarsi senza esitazioni. Senza queste conoscenze, come è possibile capire e apprezzare la letteratura, l’arte, la musica del nostro Paese? Né si può sottovalutare il fatto che per molti di questi studenti non sono affatto scontati alcuni principi che stanno a fondamento della civiltà giuridica italiana: il valore inviolabile della persona, la sacralità della vita, la parità tra uomo e donna, la democrazia, la laicità. È compito degli insegnanti proporre con decisione la condivisione – “senza se e senza ma” – di questi principi, spesso messi in discussione in nome di un insidioso relativismo culturale o del fatto che “ognuno deve poter salvaguardare i propri valori”.



La presenza di culture “altre”, di cui sono portatori gli immigrati che hanno messo radici tra noi, è un patrimonio che può portare ricchezza, a condizione che esista una condivisione forte di ciò che tiene in piedi la convivenza civile. Altrimenti il rischio incipiente (e che in molte classi si è già realizzato) è la Babele dei riferimenti. La scuola è il luogo privilegiato in cui questa condivisione forte può essere costruita. Oggi più che mai va riscoperto il valore autentico della parola “identità”: essa contiene gli elementi fondativi di un popolo e, insieme, la capacità di aprirsi all’incontro con l’“altro da sé”: non si può dire “io” senza guardare un “tu” che gli sta davanti, e solo dall’incontro tra l’io e il tu può nascere un “nuovo noi”, una identità arricchita. La costruzione di questa identità arricchita – non come formula astratta, ma come capacità di con-vivere –  è la sfida con cui è chiamata a misurarsi una scuola sempre più multietnica.