Le recenti rilevazioni internazionali concordano nell’attribuire una scarsa efficienza al sistema educativo italiano, con atenei sempre più al margine della grande ricerca mondiale e scuole con alunni sempre meno bravi dei compagni stranieri. Nonostante gli ingenti finanziamenti e la lunghezza e il peso dei suoi percorsi, il sistema fornisce un “prodotto”, in termini di candidati al lavoro, già “fuori mercato”.
Il rimedio può essere innanzitutto solo un’autonomia equilibrata, non parziale, ma esercitata con coerenza lungo tutto l’arco del sistema educativo. Nei Paesi dove l’autonomia è stata applicata, ad esempio nella libera scelta del personale, nella remunerazione di docenti e non docenti, nella formulazione dei programmi, il sistema funziona bene.
L’esempio della Spagna, con le università, è illuminante: prima che alcune università cominciassero concretamente ad esercitare l’autonomia concessa dalla Ley Organica de Universidades, del 2001 (durante il governo Aznar), il sistema universitario spagnolo soffriva quanto il nostro di burocrazia e centralismo, con megaconcorsi nazionali e inefficienza. Ora ci supera in produttività e attrae docenti e ricercatori da tutto il mondo, con contratti basati su un legame diretto tra remunerazione e risultati.
In una prospettiva di Life Long Learning, l’autonomia riguarda l’Università come anche la scuola, ed è questo il motivo per il quale la mia recente Proposta di legge per una nuova governance delle scuole prevede che i docenti siano reclutati con concorsi banditi dalle stesse istituzioni scolastiche e non a livello centrale. Diversamente, quando la scelta dei docenti non è autonoma, il sistema produce incentivi del tutto perversi, livellando al livello più basso, di minimo sforzo, sufficiente per il presidio del “posto” ma non per i bisogni di competitività della nazione.
Anche per discutere il tema del valore legale dei titoli di studio si deve necessariamente passare per l’autonomia: il primo pilastro. Ma bisogna fare riferimento pure ad un secondo pilastro, quello della valutazione (precise e trasparenti valutazioni dei risultati didattici/scientifici a livello di singola scuola o, per l’istruzione superiore, di dipartimento), per giungere, poi, ad un terzo pilastro: il diritto allo studio: un sistema di borse governato e controllato nel punto più vicino all’utenza (da scuole o atenei), in grado di garantire l’accesso ai meritevoli privi di mezzi anche in presenza di tasse più alte. Pertanto l’abolizione del valore legale del titolo di studio va considerata come elemento essenziale e insostituibile di una combinazione di fattori non casuali, ma finalizzati ad uno scopo preciso.
Una Riforma che non voglia essere soltanto nominale deve avere il coraggio di liberare le singole istituzioni educative dall’omologazione didattica e culturale che prende forma nei suoi esiti con il valore legale del titolo.
Siamo d’accordo, per questo, con quanti, pur provenendo da orizzonti politici diversi, convergono nel sostenere che l’abolizione del valore legale dei titoli preservi da alcuni rischi:
Dal rischio di ingessare scuole ed atenei (visto lo stretto nesso che si potrebbe creare tra ricchezza di offerta e diversità di titoli che la leggano);
Dalla piaga dei diplomifici che hanno fatto nascere una miriade di finte scuole il cui obiettivo è di svendere diplomi in cambio di denaro;
Dall’alterazione del meccanismo delle assunzioni (il v.l. del titolo è un manto che insieme copre cose molto differenti, come ci testimoniano le forti varianze trasversali tra le scuole italiane nel conseguimento degli apprendimenti);
Dall’azione deformante che riduce l’ultimo anno di scuola al rito vuoto dell’esame di Stato.
Dare un’offerta differenziata ed una certificazione “intelligente” (nel senso latino di “intus-legere”, che legge dentro la proposta formativa) e, dunque, trasparente dei percorsi di studio è l’unica, vera possibilità che abbiamo per rilanciare il sistema e non è un attentato alla fragilità “geografica” delle zone più povere del Paese, quasi questa fosse una maledizione legata alla terra.
Liberare le potenzialità del sistema educativo, in un contesto valutato e comparabile, risulta un bene anche al Sud.
Del resto, l’ipocrisia del valore legale dei titoli è ormai evidente: dove le istituzioni scolastiche sono ridotte a semplice luogo di socializzazione, c’è ancora legittimità ma non più sufficiente autorità per rilasciare diplomi dal valore legale.
L’uniformità (dei titoli come delle istituzioni) non assicura più come nel dopoguerra la mobilità sociale, diventando un elemento chiave nella lotta contro l’esclusione e nella promozione delle pari opportunità. E’ finito il tempo del fordismo anche per l’istruzione. Nella “catena di montaggio” del tradizionale sistema educativo, i pezzi, i tasselli dell’istruzione, non sono più gli stessi, validi per comporre un prodotto uniforme e atto a soddisfare un mondo del lavoro unico e immutabile. Anche se si riesce (ma non sempre) ad assemblare la “macchina” con crescente sforzo, minore qualità rispetto ai concorrenti e tempi dilatati, questa poi non trova mercato, creando nuove povertà. Il valore legale dei diplomi e delle lauree è stato, di fatto, già cancellato con il regalarli a tutti indistintamente, facendo saltare la corrispondenza tra titolo e reali competenze richieste dal territorio, mentre ancora si spaccia l’istruzione come un veicolo di sicura promozione sociale.
La Riforma sarebbe a portata di mano se non si sentisse incombere il peso e la forza delle corporazioni.
Anche nel recente passato, i principi di autonomia innestati nel sistema (L. 59/97, Dpr. 275/99, Dm 509/99…) non sono stati metabolizzati per la paura di una piena assunzione di responsabilità da parte di amministratori, professori e personale non docente.
Qualcosa però, sta cambiando!
Alla globalizzazione dei mercati segue l’internazionalizzazione dei sistemi educativi (Processo di Bologna e Processo di Lisbona) e la trasparenza delle competenze al di là del valore legale(il sistema EQF per il riconoscimento reciproco di titoli e qualifiche assume i risultati dell’apprendimento come elemento prioritario per effettuare il confronto). Esiste, dunque, un consenso a livello comunitario sulla necessità di aprire i sistemi di istruzione e formazione agli influssi di altre parti della società, a livello locale, nazionale e internazionale. Oggi c’è più consapevolezza della situazione e le grandi questioni non seguono più necessariamente derive provinciali.
Di ciò era convinto anche il laburista Blair quando ha affrontato il terreno impopolare delle tasse universitarie o quando in anni lontani dall’attuale crollo di consenso del suo partito, aveva avuto il coraggio di sostenere riguardo alla scuola: “Le esperienze internazionali suggeriscono che le risorse governative che seguono l’alunno svolgono un’importante funzione nel portare a successo le scelte educative”. E oggi, significativamente, è il leader dei Tory, in sicura ascesa, ad indicare con decisione la stessa strada.
Il contesto richiederebbe rapidità e prudenza. Senza pretendere di cambiare tutto dall’oggi al domani, bisogna provare ad aprire una strada diversa, alternativa e progressiva, come quella dell’ “autoriforma”, suggerita da Rossi e Toniolo, ma allargata ad uno spazio educativo (sotto questo punto di vista) senza compartimenti stagni: la strada della libera adesione ad un sistema di Life Long Learning aperto a Fondazioni di partecipazione, sul modello delle Trust schools o delle Università inglesi, alle quali non sia permesso gestire il budget a fini di lucro. Fondazioni, che ammettano nel Consiglio di amministrazione partners pubblici e privati in grado di migliorare l’offerta. Le Fondazioni godrebbero della più completa autonomia finanziaria, gestionale, didattica e scientifica; sarebbero libere di assumere il personale e di impostare i propri percorsi sulla base di indicazioni “leggere” da parte del governo centrale. Le scuole e le università che non volessero trasformarsi non sarebbero obbligate a farlo, rimanendo nell’attuale situazione giuridica, finanziaria, gestionale, didattica e scientifica.
La legge 133/08, avendo introdotto nell’ordinamento universitario italiano le Fondazioni, rappresenta una grande opportunità per una svolta epocale del livello accademico, proprio come la proposta di legge n.953, da me presentata in questa Legislatura e in discussione alla Commissione VII della Camera, rappresenta analoga opportunità per il livello scolastico.
In particolare per il livello universitario, resta, infine, da considerare come gestire, nella transizione, il problema delle professioni regolamentate nell’ambito di un modello liberista, più flessibile e in grado di rispondere alle sfide di oggi. Una delle soluzioni, come suggerisce il Direttore del Cimea, Carlo Finocchietti, potrebbe essere data da un doppio canale: il primo con protezione legale dei titoli solo per l’acceso ad un nucleo di professioni regolamentate (medici, ingegneri, farmacisti ecc.) e il secondo, per il più vasto ambito di percorsi, con assenza di valore legale dei titoli ma presenza, a garanzia della qualità, di enti di accreditamento delle istituzioni, dei curricula e degli stessi titoli.
“Il titolo vale la scuola”, diceva don Luigi Sturzo, mentre il valore legale garantisce solo un’uguaglianza “di carta” non sostanziale.
Oggi abbiamo i mezzi per correggere le deformazioni. Abbiamo la possibilità di intervenire perché il declino non sia inarrestabile.