Conquistata dalla posizione dell’insegnante Daniel Pennac in Diario di Scuola e dai dialoghi estivi con alcuni amici, sono rientrata in classe a settembre con un’unica preoccupazione: gustarmi quello che dovevo fare.
Troppe volte la scuola svilisce i cosiddetti ‘classici’ con introduzioni all’opera, spiegazioni della struttura, del pensiero di fondo dell’autore che, somministrate a priori al povero alunno, tolgono il piacere della scoperta e appesantiscono la lettura. Risultato: sempre meno ragazzi amano leggere, uccisi da quella pratica di lettura messa in atto in tanti licei, come quello che frequentavo anch’io.
Così quest’anno ho iniziato dal Paradiso di Dante, dicendo ai miei alunni di quinta: «Non vi anticipo niente perché non voglio rovinarvi la scoperta. Fate finta di aver trovato per caso questo libro e di iniziare a leggerlo, cercando di gustarlo».
E così è accaduto – a me in prima persona – che ci siamo avventurati con Dante su per il primo cielo, che abbiamo scoperto insieme a lui dove ci trovavamo, che siamo caduti nei suoi stessi errori quando, davanti ai primi beati che incontra, li scambia per immagini riflesse «per veder cui fosser, li occhi torsi; nulla vidi, e ritorsili avanti»: come lui mi è venuto da girar la testa indietro, convinta di aver davanti uno specchio. Così come sono rimasta senza fiato quando il poeta sta per dire qualcosa a Beatrice ma le parole gli muoiono in gola perchè «visione apparve che ritenne a sé me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne». Si trattava delle anime incostanti, che appaiono lì per la prima volta e tu, che sei appena entrato in paradiso con lui, provi la stessa sorpresa per la novità della visione.
Leggerlo, senza altra preoccupazione se non di fare il viaggio con lui, di vedere, udire e toccare quel che toccava lui, fino a constatare che doveva essere proprio questo il suo intento: portarti con sé. Lo si capisce da come è costruita la narrazione: niente è anticipato, ma il lettore scopre tutto insieme al protagonista e prova i suoi stessi sentimenti. Tant’è vero che un ragazzo mi ha fatto la stessa domanda che il poeta avrebbe rivolto a Beatrice qualche verso dopo! Gli ho detto: «Perfetto! Dante è riuscito nel suo scopo, cioè di portarti con lui, perché ti sei immedesimato a tal punto che ti è venuta la stessa domanda».
Oppure capita spesso di commuoversi perché in ogni riga della Commedia è Paradiso, nello scoprire un accento, una parola messa lì, quasi per caso. Come nel canto I: sei tutto concitato perché il poeta sta descrivendo il trasumanar e tenti di capire cosa voglia dire, se Dante si trovava lì solo con l’anima o anche col corpo, quando, in mezzo a un discorso bellissimo pur nella difficoltà del ragionamento teologico, egli si rivolge direttamente a Dio con l’apostrofe: «amor che ’l ciel governi, tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti». D’improvviso, questa naturalezza, questo accento di tenerezza con cui il marito potrebbe rivolgersi alla moglie – “amore” – sorprende e genera nostalgia di un rapporto così familiare.
Non più preoccupata dei miei ragazzi, ma di me davanti a Dante, guardo poi loro e li vedo tesi, vedo cioè che non si perdono una parola, ma si ricordano tutto quello che accade e le parole-chiave usate per rendere certi concetti molto più di quanto accadeva quando cercavo io di anticipare quello che il poeta avrebbe voluto dire loro, come se non lo potessero capire. Lo capiscono benissimo, invece, e basta lasciar parlare lo scrittore stesso. E così accade che qualcuno, timidamente, inizia a dire tu a Dante, inizia a dialogare con lui rispetto alle domande che solleva. Bravura mia? No, piuttosto mia passione per quello che ho davanti.
Ma non è un esito positivo della lezione il punto di novità; quello potrebbe esserci o meno. La novità è l’incontro mio con Dante, quella mattina, insieme a loro.