Solo uno dei tanti modi con cui il potere cerca di «braccare» bambini e ragazzi: questo, secondo Antonio Socci, è ciò che accade quando certi maestri riversano sugli alunni le loro proteste politico-sindacali. E, quel che è peggio, è che in tutto questo dimenticano completamente quella che dovrebbe essere la loro missione educativa: essere dei padri.
Socci, sono in tanti a parlare di emergenza educativa: anche chi fa occupazioni e inscena proteste bizzarre dice di agire per difendere l’importanza della scuola e dell’educazione dei giovani. Come distinguere tra chi ha veramente a cuore l’emergenza educativa e chi invece la utilizza come pretesto?
Per capire bene il problema bisogna partire da qualcosa che sta prima, e che può essere rintracciabile in questa frase di George Steiner: «può darsi che gli storici futuri finiscano per definire l’epoca attuale in Occidente come un’era di attacco massiccio all’intimità umana, ai delicati processi tramite i quali cerchiamo di realizzare la nostra identità unica e individuale, di sentire l’eco della nostra propria natura». Io parlo da padre di famiglia, con due figli grandi e uno più piccolo di 11 anni. Quest’ultimo si trova in un’età molto delicata, in cui, anche a causa dell’impatto con la prima media, si vive un piccolo ingresso nel mondo degli adulti, con l’allargarsi delle amicizie oltre la cerchia protetta della sfera familiare. Osservando dunque la fragilità della condizione di un bambino di 11 anni ho avvertito in maniera lampante la verità di una cosa che don Giussani diceva spesso: la nostra umanità si trova ad essere quasi braccata dal potere e dalla mentalità dominante, che è letteralmente a caccia delle nostre anime, e soprattutto di quelle dei bambini.
In cosa si vede questa sorta di attacco da parte del potere?
Basta guardare il tipo di aggressione con cui si cerca di fare dei bambini degli acquirenti; basta vedere la violenza, vera, ancora più nell’anima che nel corpo (perché il peggior bullismo è quello dell’anima) di ragazzini diventati adulti, cui è stata rubata l’infanzia, e la violenza con cui a questi ragazzi viene buttata addosso tutta la dinamica dei rapporti umani nella società, che sono rapporti di dominio e di possesso.
Di cosa hanno bisogno i nostri figli?
Il punto di partenza è lo sguardo che dobbiamo avere su di loro; e direi anche su noi stessi, perché la nostra umanità, anche se forse più protetta, non è comunque meno braccata della loro. Non viviamo in un’ampolla neutra, viviamo in una «selva selvaggia», dove letteralmente l’umanità, le anime, gli individui sono merce preziosa, che viene contesa da tanti padroni, ma che non trova padri. Invece, l’unica libertà, l’unica possibilità che abbiamo di sfuggire ai padroni è quella di avere dei padri. Qui sta la grande questione.
La scuola però è diversa dall’ambito familiare: come fare a realizzare anche in classe, tra insegnanti e studenti, quello stesso rapporto di paternità?
Penso a una bellissima provocazione di don Milani, con la quale scandalizzava tanti benpensanti, e cioè che gli unici che possono fare veramente i maestri sono i preti. Lo diceva come paradosso, ma intendeva dire che per essere educatori bisogna essere disposti a dare tutto. Tant’è vero che sfidava gli insegnanti dicendo loro: «siete disposti a non sposarvi?». Una provocazione che mette con le spalle al muro: l’educazione non è un mestiere. Il problema è che la scuola è immersa in questo accecamento generale, per cui non si sa nulla né di che cos’è l’umanità dei ragazzi, né di qual è la società in cui vivono, né di qual è la missione, lo scopo di chi è educatore. Ecco allora che la scuola diventa spesso il luogo dove ognuno avanza le proprie rivendicazioni, le proprie battaglie ideologiche, il tutto a spese dei ragazzi, che a scuola dovrebbero invece essere educati. È d’altronde molto facile usare i ragazzi: al tempo nostro eravamo usati come massa di manovra per progetti politici, oggi in maniera diversa, ma il problema è lo stesso.
Pensare a insegnanti come padri che danno tutto per educare i ragazzi sembra veramente in contrasto con l’immagine di maestri e professori, come vediamo in questi giorni, che coinvolgono gli studenti nelle loro proteste: non è un vero e proprio venire meno a quella paternità di cui lei parla?
È un venir meno soprattutto per l’oggetto di questo coinvolgimento. Intendo dire che se fosse per una costruzione, il coinvolgimento andrebbe bene; invece li sfruttano per affermare un interesse corporativo. Sia chiaro, professori, maestri e insegnanti hanno tutto il diritto di dire la loro opinione e di fare le loro rivendicazioni sindacali. Quello in cui sbagliano è che non hanno il diritto di usare la scuola e il rapporto educativo per fare questo tipo di battaglia. Ma questa, ripeto, è l’ultima conseguenza di uno smarrimento generale, perché quando parliamo della scuola parliamo in realtà della società, di noi. Di che padri siamo, di che uomini siamo. Purtroppo l’errore è quello di aver ridotto la scuola ad un settore: a un mestiere come un altro, per alcuni; a un settore della pubblica amministrazione, per altri; a un parcheggio, per altri ancora. È strano l’effetto che suscita il fatto di sentire mamme che difendono il tempo pieno dicendo: “altrimenti noi come facciamo, dove mettiamo i nostri bambini?”. Non ho nulla contro il tempo pieno: ma non concepisco che scelte che dovrebbero essere eminentemente educative, come i tre maestri o il tempo pieno, vengano fatte non nell’interesse dei ragazzi, ma per ragioni personali, sindacali o per salvaguardare il posto di lavoro.
Da un punto di vista culturale le occupazioni e certe proteste sindacali sono ancora un retaggio ultimo è un po’ stanco del Sessantotto…
Sì, è la rivoluzione che è diventata “para-Stato”. Ed è una cosa triste, che per di più, all’opposto, porta anche a un’ondata di ritorno: l’alternativa rispetto al “casino” è il ritorno un po’ vuoto all’ordine, al proibire e al vietare. Ma questa non è autorevolezza, e rischia anzi di divenire autoritarismo ridicolo, soprattutto perché poi in Italia diventa tutto burletta. E questo non lascia mai spazio al fatto di interrogarsi sulla mancanza di padri, che è il vero punto della questione.
Quali sono, in questa situazione, le responsabilità della politica?
Premetto una cosa: la sinistra secondo me è stata devastante, perché ha usato la scuola come luogo per soggiogare ideologicamente generazioni di giovani, rendendoli dei galoppini. D’altro canto, il rischio è che il centrodestra invece consideri la scuola soltanto un costo, come si può vedere nei tagli indiscriminati fatti sul versante dell’università. Ci sono certamente cose da tagliare, come sedi universitarie e corsi inutili; però bisogna tagliare accuratamente, non dando l’impressione che questo Paese non voglia puntare su università e ricerca. La vera urgenza è che il centrodestra, attraverso la libertà e la sussidiarietà, deve porsi l’obiettivo di far crescere le realtà e le presenze che sono veramente educative. Questa è la grande responsabilità della politica. Non è il ministro, e non è lo Stato che educa; il loro compito è un altro, aiutare cioè le realtà educative che già ci sono, e che non riguardano solo il mondo della scuola. Questa, ripeto, è la grande responsabilità, perché il deserto avanza, e l’unico modo per contrastarlo è irrigare le oasi.