Siamo alla vigilia di due appuntamenti importanti per il mondo della scuola: lunedì approda in aula alla Camera il decreto Gelmini, dopo l’approvazione in Commissione Cultura; contemporaneamente è previsto l’avvio ufficiale, questo fine settimana, delle proteste di piazza organizzate da opposizione e sindacati. “Scuola day”: questo il titolo che il Pd ha dato a queste manifestazioni, a dimostrare l’intenzione di difendere la scuola dai presunti attacchi del governo. Ma la gente comune, gli studenti e le famiglie, sono veramente sul piede di guerra contro le proposte del ministro Gelmini? Giorgio Israel, docente di Matematica alla Sapienza di Roma e direttamente impegnato sul tema scuola (partecipa a un tavolo di lavoro del Ministero per ridefinire i profili di formazione degli insegnanti), è convinto del contrario: gli italiani stanno apprezzando il lavoro della Gelmini, come dimostrano i sondaggi che effettivamente parlano di un ampio consenso sui provvedimenti più noti in campo scolastico. Le proteste dunque non sono altro che «strumentalizzazioni politiche».



Professor Israel, in questi primi mesi di attività il ministro Gelmini ha apportato una serie di piccole innovazioni, che permettono già di avere un’idea del suo operato: qual è in sintesi il suo giudizio su questi provvedimenti?

Il fatto di porsi l’obiettivo di riportare un minimo di disciplina nella scuola è secondo me una questione essenziale: il voto in condotta è un segnale molto preciso in questa direzione. Anche la scelta di riportare i voti in pagella è molto importante, perché chiarifica una serie di confusioni fatte negli ultimi vent’anni sulla valutazione. Il voto in numeri è certo anch’esso una stima approssimativa che ha componenti soggettive, come è inevitabile, però rappresenta in modo chiaro e non fumoso la valutazione. Viceversa i giudizi erano confusi, pieni di una terminologia a volte insopportabilmente vacua. Ora torniamo a qualcosa di definito e chiaro, che poi è l’unico sistema di valutazione seria.



In questo, come su altri aspetti, le voci critiche parlano di un ritorno al passato.

A chi dice così consiglierei di guardare quello che accade in Inghilterra, dove ci sono i centri Ofsted (Office for Standard of Education) che si occupano della valutazione delle scuole, e per fare questo adottano un sistema di valutazione numerico semplice. Questo è quello che accade fuori d’Italia: non siamo dunque in presenza di un ritorno all’antico, semmai di un ritorno alla ragionevolezza. Non possiamo certo dire che in Inghilterra siano arretrati: valutano con rapporti verbali seguiti da dati numerici, proprio come i voti. Questa è la giusta alternativa a tutte le complicate griglie di valutazione dei docimologi, con terminologia che vuole essere raffinata e invece è solo fumosa



Veniamo al punto dolente, su cui sembrano scatenarsi le proteste più agguerrite: il maestro unico. È una novità così terribile?

Questo è in effetti uno dei temi più controversi, ma è certamente il punto fondamentale. Premetto che non mi sembra assolutamente che sia solo una questione di economia. È fuor di dubbio che la scuola italiana spenda moltissimo, avendo un numero di insegnanti e bidelli spropositato, con un rapporto docenti-studenti molto alto a fronte di risultati modesti. Ma il motivo della scelta del maestro unico non è solo economico. E per capire meglio il problema bisogna precisare che quello che si occulta in questi giorni di propaganda è che la crisi della scuola non è ristretta a medie e superiori, ma riguarda anche le scuole elementari.

Ma come? Dicono tutti che la nostra scuola elementare è l’unica del nostro sistema a brillare nei confronti internazionali…

Se si va a guardare bene, nel caso della scuola primaria i confronti internazionali si basa su una serie di valutazioni fatte con parametri quantitativi, in particolare sull’impiego di risorse; e noi sappiamo bene che lo Stato italiano spende molto e impiega quantità enormi di personali. Ma poi dobbiamo fare un passo in più: se facciamo un’analisi seria, vediamo che la riforma delle elementari è entrata in vigore nel ’90, e le persone più anziane uscite con questa riforma hanno ora circa vent’anni: quello che stiamo constatando è che sono proprio questi a manifestare un crollo delle capacità linguistiche e matematiche. Si potrà dire che è colpa delle medie inferiori, ma sicuramente è un problema che riguarda anche le elementari. Lo si vede bene nei programmi, che sono stati cambiati in toto e sono disastrosi, perché vuoti di contenuto e fatti solo di teoria pedagogistica.

Questo giustifica il ritorno al maestro unico?

Proviamo a guardare la questione dalla prospettiva opposta: il passaggio ai tre maestri era basato sull’idea balzana di introdurre differenze disciplinari in una fase della crescita in cui i bambini non ne hanno bisogno. In prima e seconda elementare le esigenze sono altre. Innanzitutto, è bene che ci sia un punto di riferimento educativo, come dice giustamente la Gelmini; poi stiamo parlando di classi in cui si impara, sostanzialmente, a leggere, scrivere e far di conto. Questa è dunque la fase in cui il bambino viene introdotto al mondo simbolico, sia che si tratti della scrittura, sia che si parli di simboli numerici. È un’unica questione, ed è bene che questa fase sia gestita da una sola persona che abbia chiara l’idea di una connessione tra questi aspetti.

Questo cambiamento nell’impostazione dell’insegnamento elementare dovrà incidere anche sulla formazione dei maestri?

La riforma della preparazione dei maestri si è rivelata un disastro: oggi il maestro dei cosiddetti “moduli”, proprio quello che dovrebbe essere più specializzato, è invece formato con quote di preparazione disciplinare infime. Ci sono moltissimi casi in cui un aspirante maestro si può diplomare avendo seguito un corso di 30 ore di matematica in quattro anni. Storia antica poi non è nei programmi: quindi può diventare maestro chi non sappia nemmeno chi era Giulio Cesare. Non è dunque assolutamente vero che i maestri differenziati hanno maturato maggiori competenze disciplinari: quelli veramente competenti, al contrario, sono quelli di un tempo. I migliori sono ancora quelli che hanno 50 anni o di più; i più giovani dimostrano carenze come quelle dei loro allievi.

Intorno a tutte queste novità si è creato un pesante clima di protesta sociale, con chiari risvolti politici: come giudica questo clima?

In realtà non sono per nulla preoccupato di come reagiscono le famiglie e la società in generale. I sondaggi, su questioni come voto in condotta o voti in pagella, parlano di consensi quasi bulgari; ma anche sul maestro unico la netta maggioranza della gente è a favore. La società in generale è d’accordo con quanto sta facendo il governo, mentre le contestazioni di cui sentiamo parlare sono limitate a un numero ristretto di scuole. Il vero punto è la strumentalizzazione politica di questa protesta. E poi ha grandi responsabilità anche il mondo dell’informazione, che fa da grancassa a questo tipo di manifestazioni.

Cosa risponde a chi dice che il centrodestra ha il difetto principale di guardare alla scuola solo come ad un costo?

I fatti non dicono questo. Le decisioni prese incidono su temi scottanti, perché il fatto di avere deciso – peraltro sulla scia di Fioroni – che i debiti formativi devono essere recuperati ogni anno, dimostra una certa visione della scuola. Certo, i costi ci sono e vanno ridotti: la scuola pubblica è di dimensioni enormi, e purtroppo il privato è ancora poco. Il ministro sta creando i presupposti per riqualificare la scuola pubblica, per dare dignità alla funzione docente, per creare più serietà in classe. Il tentativo è riportare un clima di responsabilità, anche per le famiglie. Un’altra scelta importante è la chiusura delle SSIS, che era una fabbrica di disoccupati in mano a una cricca di potere. Tutto questo dimostra che si possono fare scelte importanti dal punto di vista educativo, attuando anche risparmi di spesa; perché il vero disastro non è la mancanza di risorse, ma il cattivo uso che se ne fa.