Ripartire dall’autonomia e dal riordino dei cicli; e, soprattutto, dedicare alla scuola «un vero dibattito culturale», che possa assumere anche una «dimensione di ampiezza costituzionale», creando «larghe convergenze». Questa, secondo Luigi Berlinguer, è la strada da seguire per uscire dall’infuocato clima di scontro che caratterizza in questi ultimi giorni il dibattito sulla scuola. Anche perché, dice l’ex ministro dell’Istruzione, il tutto sta avvenendo a scapito di una vera discussione sui «contenuti». «Proviamo a guardare quello che è successo con le interviste che ho rilasciato nei giorni scorsi» lamenta Berlinguer: «secondo alcuni giornali ho accusato il ministro Gelmini, secondo altri ne ho tessuto le lodi. Perché succede questo? Perché tutti hanno l’interesse politico di tirare la gente per la giacca. Io, invece, vorrei parlare di proposte concrete, e della mia idea di scuola». 



Professor Berlinguer, proviamo allora a lasciare da parte le polemiche politiche e ad affrontare nel merito le problematiche di cui si discute in questi giorni. Ad esempio: è proprio vero che la scuola elementare italiana sia intoccabile?

È vero che la scuola elementare è la parte migliore del nostro sistema. E due sono le ragioni di questo primato: innanzitutto non è stata contaminata dal “gentilismo”, quell’impostazione idealistica che ha danneggiato il nostro sistema scolastico tenendolo fuori dallo sviluppo mondiale. In secondo luogo alle elementari si è sempre dovuto insegnare a tutti, sia ai talenti che ai ragazzi in difficoltà; e questo fa bene alla scuola. Un talento naturale, infatti, si trovasse anche su un’isola deserta imparerebbe comunque; ma la gran parte dei bambini e dei ragazzi deve invece essere stimolata all’apprendimento. Qui si inserisce l’utilità della didattica, che non è chiacchiera, come spesso a torto si crede, ma porta ad essere attenti a chi impara. E nella scuola elementare questo è stato fatto.



A questo si aggiunga che nella scuola elementare si è dato peso non solo alla teoria, ma anche alla pratica, all’osservazione del reale: i bambini toccano le cose, mentre negli altri gradi di istruzione non si vuole che i ragazzi tocchino con mano la realtà, perché questo, si dice, “non fa cultura”.

Il punto di partenza di molti discorsi sullo stato della nostra scuola sono i risultati dei rilevamenti Ocse: qual è la loro importanza, e cosa dicono in concreto sulla situazione del nostro sistema di istruzione?

I quesiti Ocse non chiedono tanto di sapere, quanto di aver capito determinate cose, e di saperne trarre le conseguenze. Richiedono cioè che ci sia una scuola fondata sui problemi e non sulle nozioni: si possono infatti avere le nozioni, e non saper rispondere ai quesiti. Se i nostri ragazzi non sono in grado di fare questo è per colpa della rigidità con cui ancora viene concepito l’insegnamento: la fisica o la chimica, ad esempio, non la si può insegnare solo sui libri, ma nelle aule in cui si fanno esperimenti, perché la scienza è un insieme di teoria e di esperienza. Magari nei laboratori non ci si va con tutta la classe, ma con gruppi differenziati di studenti. Tutte cose che solitamente non vengono recepite, perché si pensa ancora all’insegnante fisso sulla sua cattedra.



Tornando alle elementari, pare dunque di capire che per lei il vero problema non sia nella diatriba tra i “pro” e i “contro” il maestro unico.

Il dibattito, e il conseguente scontro politico, sulla scelta tra maestro unico e modulo è a mio avviso un falso problema, perché sfugge al vero contenuto scolastico. Per far fronte ai cambiamenti epocali subiti dal nostro sistema di conoscenze negli ultimi decenni è necessario che anche nelle elementari vengano inseriti alcuni – pochi – specialisti; il che non significa assolutamente aumentare insegnanti e costo. Al tempo stesso non si può affrontare il problema dicendo che bisogna tornare a trent’anni fa: non si può cioè impostare il discorso in termini puramente nostalgici.  

Si è tornato a parlare anche dell’ipotesi di ridurre di un anno l’intera durata del ciclo di studi: cosa ne pensa?

È una cosa che era prevista nella riforma dei cicli che io feci approvare. Per fare questo ero partito dalla considerazione che la prima elementare, per come è rimasta, è oggi inutile, dato che i bambini a quell’età sanno già leggere e scrivere grazie alla frequenza della scuola dell’infanzia. Ma soprattutto è necessario che i ragazzi escano dalla scuola superiore a 18 anni, come negli altri paesi europei: ora invece c’è un vero e proprio spreco, e un inutile ritardo. È tutto un unico problema che si risolve con una generale riforma dei cicli. Propongo di riprendere in mano questo discorso, tenendo anche conto del fatto che ridurre di un anno il percorso è non solo una cosa opportuna, ma è anche un bel risparmio per la casse dello Stato.

Quindi è d’accordo anche lei sul fatto che i tagli nella scuola siano necessari?

Sì, ma se si parte dal dire “tagli sì, tagli no” si arriva ad avere solo posizioni inconciliabili. L’esempio del riordino dei cicli indica invece chiaramente che bisogna fare scelte giuste e utili, che poi, di conseguenza, portano anche a un uso più intelligente delle risorse, e al risparmio. È una conseguenza naturale: una scuola che guarda al futuro diventa, automaticamente, una scuola meno costosa.

Tra le recenti polemiche a proposito di scuola, c’è stato anche il dibattito sulle differenze tra Nord e Sud, di cui peraltro parlano anche i dati Ocse: qual è la sua posizione in proposito?

Io sono federalista: gli insegnanti devono essere nazionali, la cultura che si trasmette deve essere italiana ed europea, ma la gestione della scuola deve passare alle Regioni. Non bisogna certo fare 20 micro-ministeri dell’Istruzione, perché sarebbe un disastro; ma resta il fatto che sono le regioni a dover gestire il sistema scolastico. In secondo luogo, all’autonomia territoriale si deve aggiungere l’autonomia istituzionale delle scuole, che era il secondo cardine della mia riforma.

Alla fine di tutto rimane però il problema politico del superamento delle contrapposizioni: come uscire dal clima infuocato di questi giorni?

Non si cambia la scuola se si sta su sponde contrapposte, e ognuno dice di essere nel giusto. Bisogna fare uno sforzo di incontro, perché la tematica non è politicamente targata. Il clima di questi giorni certo non favorisce il dialogo, ma io faccio una proposta (riordino dei cicli e sostegno deciso all’autonomia scolastica) che può abbassare la temperatura dello scontro, e ricondurre il dibattito sul terreno delle scelte concrete. Io non voglio giudicare, e non faccio lezioni di politica sulle motivazioni che stanno alla base di questi contrasti. Ma dico che bisogna fare uno sforzo, richiesto peraltro anche dai più autorevoli editorialisti e opinionisti che si occupano di questo tema: assumiamoci l’impegno di dare una dimensione di ampiezza costituzionale alla questione scolastica, creando larghe convergenze. Dobbiamo, su questo, aprire un vero dibattito culturale.