Da pochi giorni il decreto Gelmini sull’università è diventato legge. Un testo che prevede alcuni cambiamenti rilevanti, tra cui alcune norme riguardanti la valutazione dei docenti. Tema importante, ma che, secondo Gianni Toniolo, Reserach Professor di economia e storia alla Duke University ed editorialista de Il Sole 24 Ore, deve essere strettamente legato al tema, fondamentale, dell’autonomia.
Professor Toniolo, il testo appena approvato introduce norme che riguardano anche la valutazione dei docenti. C’è però il rischio, come sottolineato in un recente intervento da Giorgio Vittadini, che si valuti solo con criteri quantitativi: cosa ne pensa?
Innanzitutto direi che, per quanto criticabili possano essere, i criteri quantitativi sono comunque meglio di nessun criterio. Detto questo, sono però d’accordo con quanto detto da Vittadini nel momento in cui sottolinea il fatto che i criteri utilizzati nei paesi in cui si fa veramente una valutazione del sistema universitario e dei docenti prevedono una serie di indicatori, alcuni oggettivi e altri soggettivi, che sono molto più complessi e completi della semplice valutazione quantitativa. Ciononostante ritengo comunque che per uno scienziato una valutazione basata su criteri standard oggettivi, come ad esempio il criterio delle citazioni, deve avere senza dubbio un peso molto forte.
Che cosa impedisce secondo lei la presenza di un sistema di valutazione in Italia?
Il fatto che si continua a pensare che questi aspetti possano essere gestiti centralmente. Io sono da tempo convinto che il primo passo da fare sia quello di dare una reale autonomia agli atenei, tramite ad esempio la scelta volontaria di trasformarsi in fondazione, secondo la proposta da me e da Nicola Rossi, cui anche Vittadini ha fatto riferimento. Se le università sono veramente libere, dato contestualmente un sistema premiale forte per cui le università migliori ricevono più risorse, data l’abolizione del valore legale del titolo di studio, dato un sistema di borse di studio che permetta agli studenti di scegliere l’università che preferiscono, allora potrà veramente attuarsi una rivoluzione copernicana del nostro sistema. Rivoluzione per noi; perché ciò di cui stiamo parlando è invece la normalità nei paesi dove le università funzionano bene. In un sistema come questo, allora le università devono essere libere di assumere i docenti che credono, e di valutarli come credono.
L’obiezione a questo è nota: le università assumeranno gli amici degli amici…
Lo facciano pure, e ne paghino le conseguenze. Poste tutte le condizioni di cui sopra, se un’università deciderà di assumere non sulla base del merito ma per altri motivi, con scelte che andranno evidentemente a incidere sulla qualità dell’ateneo stesso, alla fine nel lungo periodo questo comportamento suicida farà sì che l’università si riduca a poca cosa.
Torniamo alla valutazione: è meglio puntare sulla ricerca o sulla didattica, oppure entrambe hanno lo stesso peso?
Anche in questo caso, per rispondere, bisogna rifarsi al discorso dell’autonomia e della differenziazione degli atenei. Io credo, ad esempio, che siano poche le università che possano fare bene delle lauree specialistiche, e ancor meno quelle che possano istituire dei corsi di dottorato competitivi a livello internazionale. Questo non significa distinguere tra università migliori e università peggiori: ci possono essere università che fanno molto bene le lauree triennali, concentrandosi più sulla didattica che sulla ricerca, e che potranno fornire un ottimo servizio al territorio e alla collettività. Prendiamo l’esempio degli Stati Uniti: lì ci sono le research university, e sono poche, dove evidentemente il criterio di valutazione per l’assunzione di un professore si concentrerà al 90% sulla ricerca, e ci si potrà permettere di prendere un grande scienziato anche se è un pessimo didatta. Accanto a queste però ci sono i teaching college, dove si privilegia chi insegna bene. Ma pensiamo anche alle business school: lì la capacità di insegnare è assolutamente decisiva, e i docenti vengono valutati nella didattica non solo corso per corso, ma addirittura lezione per lezione, dagli studenti stessi. Quindi io credo veramente che si debba uscire dall’idea che tutto venga deciso da Viale Trastevere. Altrimenti sembra come quando si faceva il militare: arrivavano le circolari del ministero sul cambio della divisa da estiva a invernale, e doveva valere per chi stava sulle Alpi come per chi stava in Sicilia.
Sempre a proposito di Stati Uniti, visto che lei insegna lì: che cos’ altro dovremmo imparare da quel sistema a livello di valutazione?
Sono tantissime le cose di quel sistema che dovremmo fare nostre. In particolare, sui criteri di valutazione, è importante ricordare che la parola finale per l’assunzione o meno di un professore viene presa da una commissione che comprende tutte le discipline. La pre-valutazione viene fatta dagli esperti delle discipline, ma per assumere un candidato, ad esempio un economista, bisogna convincere tutti (anche giuristi, filosofi e letterari) che l’università, assumendo proprio quell’economista, farà un buon investimento. Tutto questo viene deciso sulla base di dossier molto complessi, secondo i criteri di cui parlavamo all’inizio. Criteri che naturalmente possono variare in base al candidato; è naturale, ad esempio, che la capacità di attrarre fondi potrà essere un criterio molto importante per un biologo o un chimico, meno per un letterato o un filosofo.
Alla luce di tutte queste considerazioni, qual è il suo giudizio sulla politica universitaria del ministro Gelmini, e in particolare su questo decreto?
La Gelmini mi pare che abbia fatto per la prima volta un passo avanti in direzione dell’autonomia. Il documento più importante per capire questo è quello delle “linee guida per il governo dell’università”, che contiene elementi a mio avviso rilevanti. Innanzitutto perché ha il coraggio di dire chiaramente che la nostra università sta andando a catafascio. Il punto problematico è che dovrebbe essere molto più coraggiosa su due aspetti: l’abolizione del valore legale del titolo di studio, e l’abolizione dei concorsi. I concorsi, infatti, non sono riformabili, nemmeno col sorteggio, da cui per altro siamo già passati: i concorsi vanno semplicemente aboliti. Istituiamo una lista di idonei, una libera docenza, e poi le università assumano chi vogliono e lo paghino come vogliono. Dopo di che, come detto prima, si assumano la responsabilità delle loro scelte.