Dopo le recenti disposizioni del Ministero riguardo alla distribuzione degli investimenti nelle università, arriva dall’Eurostat (l’ente che si incarica della raccolta di dati statistici in Europa, omologa del nostro Istat) il rapporto sulla spesa in istruzione dei paesi europei. Sulla stampa già si stracciano le vesti al grido di “l’Eurostat boccia l’Italia” anche se il rapporto si limita a fornire informazioni e dati, sul parametro comune di un coefficiente di “potere d’acquisto” che renda comparabili le diverse situazioni socioeconomiche dei paesi.
Sulla rete circola tra l’altro un dato errato (lapsus freudiano ?), riportato a catena tipo copia e incolla, relativo alla spesa per alunno “…l’Italia si situa al quattordicesimo posto, con una spesa pari a 5.908, dato più basso della spesa media Ue (pari a 5.650) e molto inferiore rispetto a quello di paesi come Austria e Danimarca (8.000 Spa)”, e si citano i dati del Giappone (7.100 Spa), e degli USA (10.600 Spa) senza segnalare che essi sono utilizzati da Eurostat come parametri esterni di verifica.
Sulla relazione fra PIL e spesa in istruzione, la percentuale resta stabile nel tempo per tutti i paesi con una media attorno al 5%, con punte massime dell’8,28 % in Danimarca e un minimo di 3,48% in Romania, mentre l’Italia si colloca al di sotto della media con un 4,4 %.
I dati però vanno letti dall’interno. Intanto, nella ricerca IEA TIMMS, che si estende a un numero di paesi più ampio dei paesi europei, emerge comunque che una spesa alta in istruzione non è significativamente correlata all’efficacia, tanto che un paese che investe piuttosto poco come la Corea ha risultati migliori della Danimarca, che è al primo posto della scala Eurostat. Ovviamente l’Eurostat non ha lo scopo di mettere in relazione questa spesa con gli esiti di apprendimento, come le rilevazioni TIMMS e OCSE PISA.
Secondariamente, il totale di spesa considerato da Eurostat comprende oltre alla spesa per istruzione in senso stretto anche:
La spesa pubblica per l’amministrazione (ministeri, dipartimenti etc)
La spesa per i servizi (trasporti, supporti per l’orientamento, psicologici, etc)
Le voci di spesa pubblica per aiuto economico agli studenti e alle loro famiglie (come voucher, borse di studio, sgravi fiscali)
Le spese private sostenute dalle famiglie (lezioni o corsi aggiuntivi) benché non sempre quantificabili
Le voci di entrata che provengono da privati, come finanziamenti e partnership.
Ogni stato attua politiche differenti quanto a distribuire la spesa sull’uno o l’altro settore; proprio qui si potrebbero fare alcune osservazioni comparative, disponendo dei dati disaggregati. Sarebbe interessante confrontare la spesa dell’Italia per servizi, cioè di tutto quanto contribuisce alla effettiva possibilità di fruire delle opportunità di apprendimento.
Qualche osservazione si può già fare sui dati forniti dal rapporto Eurostat. In Italia risultano inferiori ad altri paesi sia la percentuale di fondi privati all’istruzione (siamo al 16mo posto), sia la spesa a sostegno degli studenti e delle famiglie (18mo posto). Si tratta dei settori in cui la spesa è più vicina ai soggetti che fruiscono dell’istruzione, come investimento sul singolo (incentivi economici a studenti e famiglie) o su un settore specifico (finanziamenti di stakeholder interessati all’esito di apprendimento).
L’Italia poi si colloca un po’ più in alto se si considera la spesa per alunno: per Eurostat essa è pari a 5.908 Spa, il parametro tarato sul potere d’acquisto della moneta, dato più alto della spesa media Ue (pari a 5.650) anche se inferiore rispetto a quello di paesi in cima alla classifica di spesa come Austria e Danimarca (8.000 Spa). Anche l’OCSE PISA ha rilevato una spesa alta specialmente nella scuola primaria (6.853 dollari per alunno contro una media OCSE di 6.252) e bassa all’università (8.026 dollari contro gli 11.512 della media OCSE).
Il sospetto è che da noi magari si “spende”, ma non si “investe”. Le spese per mantenere efficaci i meccanismi di riproduzione del sistema (uffici, stipendi del personale – di cui una buona parte amministrativo o tecnico) assorbono una percentuale molto alta, mentre mancano significativi segnali di investimento sui soggetti: servizi, incentivi, strutture, formazione degli insegnanti, prestiti d’onore ai capaci, tutte voci pericolosamente carenti finora nel nostro bilancio.
Del resto, in settembre lo stesso Andreas Schleicher, responsabile delle ricerche sull’istruzione dell’Ocse, commentando il rapporto annuale Education at a glance del 2008 affermava (in un’intervista a Panorama.it di martedì 9 settembre 2008) che il problema dell’Italia è l’alto numero di insegnanti, peraltro pagati male. “La spesa non è il difetto principale dell’Italia. Il vero problema è invece come vengono spesi. Esattamente il contrario di quanto fa, ad esempio, un paese come la Corea del Sud”, dove invece il numero dei professori è minore e il loro stipendio è più alto.
Si può forse ipotizzare che in Italia non ci sia ancora una logica di investimento in capitale umano, quello che consiste nel potenziare le opportunità di istruzione e la loro qualità, nel finalizzare la spesa al fine di un ritorno dell’istruzione per il vantaggio dei singoli e dell’intera collettività, come da tempo è diventato chiaro altrove.
Un altro particolare interessante è il livello scolare sul quale si concentra la spesa pubblica, che conferma i dati OCSE PISA: si nota un comportamento anomalo dell’Italia, rispetto a tutti gli altri paesi (Figura 6 del rapporto Eurostat). L’Italia non distingue fra i livelli (nella figura i segnali dei diversi ordini di scuola si trovano allo stesso punto), cioè spende praticamente la medesima cifra per alunno sia nel segmento primario-secondario sia nel post secondario (fra cui l’università), il che conferma la maggior spesa per alunno nella scuola primaria che per all’università rilevata da OCSE PISA. Come viene esplicitamente notato dal rapporto, si tratta della politica contraria a quella adottata dagli USA, dove il massimo sforzo si concentra sul livello post secondario.
L’Italia ha varato negli ultimi 50 anni la scuola di massa, passaggio che altrove era già avvenuto prima della guerra, concentrandosi sul segmento primario e secondario, e solo ora si comincia a chiedere che le università tornino ad essere finalizzate alla qualità e alla ricerca: donde i recenti provvedimenti del ministero. E qui si arriva anche all’investimento nell’eccellenza, che in Italia è mancato da anni.
Il che dimostra l’assunto per cui nella scuola è necessario finalizzare la spesa all’obiettivo che si vuole ottenere. No ai tagli indiscriminati, come molti hanno sottolineato giustamente, ma certo è venuta l’ora di non finanziare “a pioggia” e per motivi corporativi. Nel caso delle misure relative all’università, i provvedimenti attuati dal ministero paiono andare in una direzione interessante. Staremo a vedere.