L’insegnamento – è bene ricordarlo – richiede una specifica professionalità. Così come ad un idraulico non chiedo tanto di essere una brava persona, moralmente corretta, quanto di aggiustarmi il rubinetto, così ad un insegnante chiedo innanzitutto di fare bene il suo mestiere, ovvero di permettere agli alunni di apprendere determinate cose a determinati livelli; possibilmente in modo efficace e senza gravare troppo sulla collettività. Il nesso con l’educazione è evidente. Tra i due, tuttavia, non c’è identità. E rimane comunque il fatto che non si educa astrattamente, ma “facendo quello che si fa”, in una azione o lavoro sempre determinati; ovvero che ogni azione e lavoro (compreso l’insegnamento) hanno una propria struttura, forma, modalità esecutiva ed organizzativa storicamente determinate. Le forme infatti si modificano, sia nel mestiere del fare le scarpe, come in quello di forgiare cervelli. Non tenere conto di tutto ciò, dichiararlo come ultimamente irrilevante in rapporto all’educazione e non chiedersi quale è la forma oggi più consona è pura astrazione.



Il mestiere dell’insegnamento oggi è ancora strutturalmente legato alla modalità di organizzazione dei saperi per “discipline”, in fondo abbastanza recente, definitasi nell’Università tedesca dei primi dell’800 ed all’idea romantico-idealistica di “enciclopedia”: il ciclo formativo si attua facendo ripercorre nella testa della singola persona ciò che l’umanità ha fin qui traguardato e, quindi, nell’appropriarsi del punto di vista panoramico che spiega e ricomprende tutti i passaggi ed i particolari dello sviluppo stesso. In questa visione, formazione dell’individuo, educazione e insegnamento formano un evidente blocco; l’insegnamento diviene comunicazione del sapere e ad un tempo elevazione al suo senso, ovvero trasmissione del “giudizio culturale”.



Ebbene, tale forma è oggi ampiamente inadeguata rispetto alle sfide che i ragazzi si trovano sempre più ad affrontare. La scuola segna una distanza dalla realtà di dimensioni troppo macroscopiche. Buona parte delle cause dei risultati negativi, in termini di efficacia del nostro sistema, è dovuta proprio a questa inadeguatezza strutturale e non a una mancanza di “serietà”.

Ma è possibile un’altra forma dell’insegnamento? Anche se ciò può apparire paradossale, proviamo a volgere lo sguardo indietro, ad una fase di ri-definizione della civiltà come è stata quella medioevale. Pensiamo alla forma originaria della lectio, come laboratorio di apprendimento della corporazione di studenti e professori, laboratorio dove il maestro indica i termini del problema ed interviene solo in caso di difficoltà e nel definire la sintesi di tutti gli apporti del processo collettivo di analisi, discussione, confutazione/falsificazione, processo che ha per protagonisti direttamente gli studenti ed i bacellieri. Come in una sorta di torneo cavalleresco, attraverso un autentico lavoro di équipe. Processo che è “disciplina”, non nel senso di organizzazione/classificazione di saperi, ma di esercizio, rigore logico applicato (logica formale e dialettica insieme), in una dimensione collettiva e “produttiva”. E, soprattutto, approccio per problemi; esercizio a stare di fronte ai problemi (“lectio” come “quaestio”). Questi laboratori hanno prodotto una Summa Theologiae come quella di Tommaso, un elaborato frutto del maestro, tanto quanto del lavoro collettivo dei suoi allievi, attraverso la strada del dubbio problematico (“Utrum Deus sit” e non “Deus est”) e proprio per questo apertura al vero ed al senso: un luogo, come uno dei più grandi teologi contemporanei ha affermato, in cui lo spirito può riposare nella certezza della verità.



A tale forma dell’apprendimento corrispondeva una determinata organizzazione dei saperi, consolidatasi proprio nella fase di passaggio dall’epoca del tardo impero romano – epoca che per certi aspetti offre parecchie analogie con l’oggi, per i contatti con culture ed esperienze differenti e la fluidità del contesto socio-politico-economico, che promuovono sempre più incertezza esistenziale e instabilità sociale. Ebbene, la formazione che ha condotto l’Europa a superare in modo vincente quell’esperienza non era caratterizzata da altrettanta complessità; al contrario, era assai semplice, si concentrava sull’essenziale. Nelle scuole europee s’insegnava innanzitutto a pensare, parlare e dialogare, formalizzando quest’insieme di esperienze nella formula del Trivio (Logica, Grammatica e Retorica). Le arti liberali fungevano da strumentazione per la produzione stessa del nuovo sapere “scolastico”, dove il termine indica non tanto il contenuto, quanto il metodo stesso della sua produzione.

C’è qui una interessante indicazione: oggi, come allora, occorre una rifondazione non superficiale sia dell’organizzazione dei saperi, che della forma dell’insegnamento, ovvero del sistema scuola nel suo complesso; occorre superare l’idiotismo disciplinairstico, puntare ad una essenzializzazione dei saperi ed allo sviluppo di competenze funzionali; rimettendo al centro l’apprendimento, procedendo per problemi, imparando a muoversi tra i confini e tra i linguaggi.

Queste cose si fanno già? Sicuramente nel mondo della scuola ci sono esperienze estremamente significative; il problema però è che tutto ciò diventi nuova forma strutturale; altrimenti le pur nobili esperienze non rimangono altro che isole o tentativi di nuotare contro corrente. Quanto al processo di riforma: la strada, diciamo così,  è ancora per buona parte da fare. L’assetto strutturale scolastico rimane tenacemente ancorato al vecchio modello, come una cozza allo scoglio, grazie alla formidabile flessibilità (in questo caso sì, ma trasformista)  di chiamare con nomi nuovi le solite, vecchie cose.