Il «rifiuto della falsa scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali»: sarà forse questa l’unica frase un po’ incisiva che resterà nella memoria di chi ha ascoltato o letto il discorso di insediamento del neopresidente Barack Obama. Per il resto l’orazione è stata abbastanza deludente. Obama ci ha messo dentro un po’ di tutto, con quella propensione alla medietas che, se non ben dominata, scade facilmente nel vago e nell’inconcludente. Nessun concetto forte, nessuna immagine efficace.



Ma cassare dal punto di vista retorico il discorso di Obama è cosa facile, e quindi è inutile indugiare oltre. Meglio passare alla pars construens, e a quello che del discorso di Obama ha più convinto e, diciamo pure, entusiasmato anche coloro che erano infastiditi dal clima da attesa messianica con cui l’insediamento è stato da molti vissuto. Sono bastati solo pochi secondi, e il nuovo presidente ha fatto cadere il proprio sforzo oratorio su un tema che nessun politico italiano, in una circostanza così importante, avrebbe mai osato collocare in una tale posizione di rilievo: la scuola. «Le nostre scuole perdono troppi giovani», ha detto Obama all’inizio, per rimarcare uno degli aspetti più problematici della società americana, da risolvere quanto prima; «trasformeremo le nostre scuole, i college e le università per venire incontro alle esigenze dei tempi nuovi», ha detto poco più avanti, per indicare uno degli interventi più urgenti che l’amministrazione si prefigge come priorità.



Non è solo il fatto di dar peso al tema educativo, che piace; è anche e soprattutto il modo con cui il tema viene proposto. Primi destinatari delle politiche scolastiche sono i ragazzi; obiettivo di tali politiche è l’innalzamento della qualità delle scuole che i ragazzi stessi frequentano. D’altronde un’anticipazione di questo la si aveva avuta qualche giorno prima dell’insediamento, nella – forse un po’ stucchevole – “lettera aperta” alle figlie, in cui Obama usava parole simili: «In fondo, ragazze, ho corso per la presidenza per quello che desidero per voi e per ogni bambino della nostra nazione. Voglio che tutti vadano in una scuola all’altezza del loro potenziale, che abbiano l’opportunità di andare al college, anche se i loro genitori non sono ricchi».



Tornando al discorso di insediamento, è da notare che l’espressione «perdere i giovani» porta subito il pensiero a quella che è la legge cardine della politica scolastica Usa degli ultimi anni: la “No Child Left Behind” (NCLB) varata nel 2001, all’inizio della prima presidenza Bush jr. Ciascuna delle caratteristiche di questa legge basterebbe da sola per rivoluzionare la scuola italiana: valutare regolarmente l’operato delle scuole; dare finanziamenti in base agli esiti dei test somministrati; favorire la libertà di scelta delle famiglie. Ma quel che più colpisce (e per il clima che si respira da noi sarebbe come dire che la legge è stata fatta dai marziani) è che si tratta di una legge bipartisan, votata a larga maggioranza dal Congresso: è stata una delle prime mosse della tanto vituperata amministrazione Bush (repubblicana) e verrà portata avanti dall’amministrazione Obama (democratica).

Ora sappiamo che la NCLB deve essere sottoposta a una serie di valutazioni, a qualche anno dall’approvazione. I risultati positivi sembrano essere certificati dal fatto che nei test i ragazzi vanno sempre meglio; ma non è il caso di entrare qui nello specifico di quello che Obama dovrà fare per attuare al meglio questa legge. Ciò che importa è quello che noi, qui in Italia, possiamo apprendere da tutto questo: che la scuola, e l’educazione in generale, non è un corollario di un programma politico dell’azione di un governo; e, viceversa, che riempirsi la bocca di attenzione alla scuola e poi preoccuparsi solo della salvaguardia dei posti di lavoro e mai dell’esito è tanto quanto fregarsene, se non peggio.

Questa attenzione alla scuola basta dunque a rendere gradito il pur debole discorsetto di Obama; così come quella legge basta a rendere gradita nella memoria l’amministrazione Bush. Inutile dire che di tutta questa questione nel dibattito italiano non c’è traccia.

(Rossano Salini)