Quando si mette mano al restauro di una delle tante chiese lombarde ristrutturate nel Settecento, avviene di frequente che sotto la scialbatura settecentesca da ripristinare ci si imbatta nel cromatismo e nella flessuosità di un affresco cinquecentesco e talvolta, ancora al di sotto, in qualche angolo, nella compostezza e nella luminosità di uno quattrocentesco o trecentesco.



In una simile avventura potrebbe incappare il ricercatore che si accostasse allo “Schema di Regolamento per il coordinamento delle norme vigenti per la Valutazione degli alunni” su cui da dicembre le scuole stanno spremendo tutte le loro capacità cerebrali, ai fini molto seri e concreti di valutare i loro allievi.



Non è difficile accorgersi che in questo testo si sono sedimentate le stratificazioni storiche degli ultimi dieci anni di politiche ministeriali sul tema. Sono infatti chiaramente riconoscibili, come in un terreno fossile, l’epoca della valutazione autentica o formativa, quella della certificazione delle competenze e quella del ritorno ai voti numerici, con una puntata verso il futuro con la valutazione standardizzata esterna.

Questo modo di procedere per accumulo probabilmente è indispensabile in un paese come l’Italia in cui qualsiasi scelta è vissuta come una violenza, ma certamente limita fortemente la possibilità di agire in modo chiaro ed efficace. Perse nel mare magno in cui c’è tutto e di più, le scuole rischiano di fare scelte di priorità molto diverse ed alcune discutibili. E di non accorgersi dell’importanza crescente che sta assumendo la valutazione standardizzata esterna.



Il primo strato è quello della valutazione formativa altrimenti detta anche autentica, che è particolarmente sottolineata nella parte relativa alla scuola primaria, ma che sostanzialmente rimane una raccomandazione pedagogica. Si conferma la definitiva scomparsa del Portfolio dell’epoca Moratti come strumento obbligatorio previsto dalla norma. È un peccato che gli eccessi di quell’epoca rischino di far sparire dalla pratica professionale delle scuole uno strumento che invece merita di diffondersi in quanto utile per il miglioramento degli apprendimenti. Non gli ha certo giovato l’essere contrapposto ad una valutazione chiara degli obiettivi raggiunti, la cui esigenza sembra invece in questo momento prevalere in modo trasversale agli schieramenti.

Il secondo strato è quello della certificazione delle competenze, un deposito del Ministero Fioroni che in quanto tale viene strenuamente difeso dal CNPI che richiama in modo molto ampio le ragioni europee della sua nascita e della sua necessaria sopravvivenza, anche al mutare dei venti politici. E infatti non solo viene confermata la certificazione delle competenze al termine della scuola media, ma ne viene prevista anche una edizione precedente al termine delle scuole elementari per evidenti ragioni di buon senso. Al tema viene dedicato tutto l’art. 5 che è utilmente separato da quello della valutazione; questa separazione, unita alla specificazione che la valutazione deve essere solo positiva, può aiutare le scuole a capire che si può valutare positivamente per promozioni o per il rilascio di diplomi, senza per questo dover rilasciare una certificazione positiva in tutti i campi. Questa impostazione entra in contraddizione però con il ruolo che viene anche qui riservato alla valutazione numerica in decimi e alla necessaria sufficienza in tutte le materie per essere ammessi all’esame.

Non vi è infatti chi non veda che è assolutamente contradditorio prima chiedere di certificare in decimi e nella frase successiva parlare di articolazione della stessa certificazione in un numero contenuto di livelli.

Il terzo strato è infatti quello della obbligatorietà di una valutazione numerica con l’uso della tradizionale scala decimale. Questa rivalutazione della scala decimale risponde ad una esigenza giusta che è quella di fare un po’ di chiarezza sui livelli effettivamente raggiunti dagli allievi, dopo anni di buonismo e di nebulosità nel nome del percorso fatto, che hanno permesso lassismo e generato bassi livelli. Ma lo strumento scelto è inadatto; esso risponde alla esigenza permanente italiana di ritorno al buon tempo antico, ma non tiene conto che nel frattempo la scala decimale misurativa è stata nella teoria e nella normativa a livello internazionale soppiantata da una scala a tre o a cinque livelli, che fra l’altro corrisponde alla scala effettivamente usata dagli insegnanti italiani.

Anche PISA nel 2000 era partita per Lettura con una scala a 5 livelli, salvo poi strabordare a 6 con l’indagine del 2003 sulla Matematica.

E del resto chi, se non un sadico, saprebbe descrivere la differenza che intercorre fra un 4, un 3, un 2, un 1 ed uno 0?

L’altro rischio che corre questo ritorno ai voti è quello di annullare nella pratica degli insegnanti la doverosità di motivarli descrivendo i livelli, oltre a quello di alimentare la comprensibile illusione che un incremento delle bocciature migliori il livello della nostra scuola. I paesi che hanno le più alte percentuali di bocciature non hanno necessariamente i livelli più alti di apprendimento e viceversa.

Il futuro viene invece in questo Regolamento incarnato dalla valutazione standardizzata esterna collocata per ora solo nell’esame di terza media. Spesso presa sotto gamba dalle scuole nell’anno precedente, ora viene definitivamente collocata nella struttura dell’esame, con anche la simbolica attribuzione della percentuale del 15%. Due altri elementi rendono questo esame più significativo dal punto di vista della effettiva capacità valutativa e certificativa: la scelta delle materie su cui svolgerlo, che darà di fatto delle priorità alle materie ritenute cruciali; e la definizione della percentuale da attribuire alle prove e al percorso dell’allievo. Non che questo non si facesse in passato, ma il più chiaro assetto delle percentuali aiuta ad uscire dal nebuloso buonismo di certi giudizi.

Anche qui sarebbe un errore pensare che un incremento delle bocciature innalzerebbe di per sé solo i livelli di apprendimento; l’unione però di una valutazione più attendibile con uno strumento realistico di certificazione delle effettive competenze possedute potrebbe consentire di garantire passaggi senza i soliti falsi in atti di ufficio.

Tutta questa ginnastica intorno ad un esame di scarsa rilevanza effettiva quale quello di terza media, in un paese in cui non c’è l’orientamento obbligatorio, non si capisce, se non in previsione di un simile mutamento anche per la maturità.

Facili profeti furono coloro che prevedevano una apertura in questo senso: è di pochi giorni fa il lancio su youtube da parte del Ministro Gelmini di questa ipotesi, insieme con la informazione sulle materie dell’esame 2009.

Del resto la scuola, di fronte alla evidente inattendibilità dei voti di maturità certificata dall’inflazione di 100 e lode al Sud e dal fatto che il livello di questi voti è distribuito territorialmente in modo opposto a quello dei risultati PISA, ha due strade dinnanzi a sé: o accetta delle iniezioni di calcestruzzo nelle sue prove finali; o rischia di vedere affidata all’esterno le certificazioni che contano, come già succede per l’informatica e le lingue straniere.