«Noi lasceremo alla generazione successiva una situazione molto complessa, che per certi versi potrebbe essere anche disastrosa». Gianfelice Rocca, vicepresidente di Confindustria con delega per l’Education, non usa mezzi termini per definire l’attuale crisi economica. E in una situazione così grave, le cui ripercussioni si riverseranno principalmente sui giovani, l’educazione e l’introduzione al mondo del lavoro assumono un ruolo assolutamente cruciale.
Presidente, in che modo l’educazione può essere una risposta alla crisi?
Innanzitutto dobbiamo intenderci sulla complessità di questa crisi. Ci troviamo in condizioni veramente critiche, perché non sappiamo quale sarà l’approdo di questa fase: abbiamo di fronte sei mesi di paura, dove la disoccupazione può assumere dimensione ancora non definibili. Quindi, al di là del modo con cui se ne uscirà, i giovani di oggi si troveranno certamente in un mondo diverso, in cui anche la stessa globalizzazione avrà un’altra immagine rispetto a quella attuale. Ora, è chiaro che l’educazione e l’istruzione sono l’elemento centrale: i giovani dovranno essere pronti al cambiamento e avere la capacità di muoversi in un mondo che chiederà loro più innovazione e più differenziazione. Ci vuole un’educazione che dia loro sostanza, e non apparenza, perché questa crisi ci obbliga a un’estrema concretezza.
L’educazione è dunque una priorità; eppure non sembra che in Italia questo sia percepito. Come fare per sensibilizzare l’opinione pubblica intorno a questo tema?
Si tratta di un problema profondo, che riguarda l’educazione dei genitori, prima ancora che dei figli. Certo, i media da questo punto di vista possono fare molto, soprattutto se iniziano a occuparsi di scuola con competenza, e non dando spazio – come invece troppo spesso fanno – a questioni di facciata e agli aspetti scandalistici. Bisogna cogliere il movimento di fondo che attraversa la nostra scuola, e a quello dare voce. Un’informazione corretta e approfondita è dunque la prima necessità; dopodichè ci vuole un convincimento più di lungo periodo, che riporti le famiglie a rendersi conto che l’educazione è un fatto essenziale.
Parlando di rapporto tra educazione e mondo del lavoro, un ruolo centrale spetta naturalmente all’istruzione tecnica. Gli istituti tecnici sono stati uno dei motori del nostro sviluppo economico: come recuperare questo rapporto col mondo produttivo, che negli anni un po’ si è perso?
Innanzitutto dobbiamo garantire alle scuole tecniche una maggiore flessibilità, in modo che possano adattarsi a una domanda esterna che cambia moltissimo. Primo aspetto di cui tenere conto è poi il fatto che chi esce dall’istruzione tecnica per metà va all’università, e per metà nel mondo del lavoro. Quindi i presidi devono tenere conto del problema del placement, di come collocare i ragazzi nel mondo del lavoro, e al tempo stesso porre attenzione a questa doppia domanda dei loro studenti. Il rapporto con il mondo delle imprese deve poi essere assolutamente recuperato: è da qui che può derivare quella concretezza nell’insegnamento che dà passione e vitalità all’apprendimento, e che tanto può coinvolgere i giovani. Non bisogna mai dimenticare che coloro che frequentano gli istituti tecnici non hanno un’istruzione di secondo livello, ma un modo diverso di studiare, basato sul fare per capire. Dall’istruzione tecnica può poi derivare una grande risposta al problema dell’occupazione sollevato da questa crisi.
In che senso?
Visto che c’è una grande domanda di tecnici, i giovani che escono da questi istituti sono in grado di inserirsi nel mondo del lavoro, e di garantirsi un’indipendenza economica già a 19 anni. Invece di avere molti giovani che per scelte sbagliate vanno ad alimentare una disoccupazione intellettuale di persone con una formazione “generalista”, che non sanno cosa fare, e che vivono il dramma non saper nemmeno che tipo di lavoro cercare, avremo gente che nella nuova società potrà giocare un ruolo ben preciso.
Confindustria insiste molto sul fatto che all’istruzione sia riservato un canale apposito, distinto dall’istruzione professionale. I provvedimenti del ministro Gelmini vanno in questa direzione: non le pare che ci sia il rischio di un’istruzione tecnica gestita dallo Stato, e quindi poco flessibile?
Io penso al contrario che tutta la programmazione scolastica dovrebbe passare alle Regioni, licei compresi. Creare una differenziazione per cui i licei restano in capo allo Stato, e tecnici e professionali in capo alle Regioni mi pare che rispecchi l’idea gentiliana delle due diverse culture: i licei per la formazione della classe dirigente, e gli altri istituti per le classi subalterne. Un’impostazione non adeguata alla nostra società, in cui anche la cultura classica deve sapersi adattare a quelle che sono le circostanze in cui si forma. Non dimentichiamo che in certi paesi tutte le scuole sono controllate dai Comuni, e questo accade ad esempio in Finlandia, il cui sistema riscuote un grandissimo successo. Discutere dunque su chi deve stare in capo alle Regioni e chi in capo alla Stato mi sembra un problema di carattere burocratico. Bisogna invece puntare su ben altro.
Su cosa in particolare?
Soprattutto sull’autonomia scolastica. Il vero punto di riferimento devono tornare ad essere i presidi (in passato erano molto spesso ingegneri), i quali devono essere degli imprenditori culturali, per riuscire a dare risposte a domande complesse e molto variabili. Quindi l’intervento statale o regionale è relativamente importante; quello che conta è concentrarsi sulla singola scuola e sulle reti di scuole.
Il discorso dell’autonomia si ricollega alle ipotesi di nuova governance della scuola, con ingresso dei privati in organi particolari. Qual è la sua opinione in proposito?
Soprattutto per i tecnici è importantissimo che vi sia una partecipazione organizzata del mondo delle imprese nella governance della scuola. Questa d’altronde era la ragione del successo dei tecnici fino agli anni ’70. La scuola sembra purtroppo vivere di una paura nel rapporto con il mondo esterno, perché si teme che questo possa essere un intervento per trasformare la scuola in un servizio per la formazione dei dipendenti delle aziende. Non è così. Noi avevamo imprenditori che erano anche presidenti di istituti tecnici, e avevamo laboratori con tecnici che venivano mandati dalle imprese a insegnare negli istituti. Dobbiamo assolutamente ripristinare questo circuito virtuoso, per dare un’identità alle scuole tecniche. Se non ripristiniamo questo, le svuoteremo della loro identità e della capacità di chiamare gli studenti per la loro qualità, e non come scuola di secondo scelta.