Costretta in casa in questa prima settimana dell’anno dall’influenza, sono stata variamente rallegrata da un numero incredibile di trasmissioni radiofoniche che chiedevano agli ascoltatori di formulare i loro buoni proposti per il nuovo anno, oppure di indicare che cosa avrebbero voluto nella calza della Befana. Mi sono allora chiesta come avrei risposto io nei panni della Scuola Italiana, ammesso che le restino le forze per esprimere delle speranze e formulare dei buoni propositi.



Anzitutto, ricorderei al ministro che molti psicologi sostengono che piuttosto che formulare dei propositi a cui poi non si riuscirà a tenere fede (del tipo: risolvere per sempre il problema dei precari; fare una riforma della secondaria superiore che accontenti tutti, in modo da evitare il 37° rinvio; convincere schiere festanti di docenti a sfilare davanti all’Invalsi agitando gagliardetti e cantando “vogliamo essere valutati”), cosa che provoca un effetto depressivo, è preferibile concentrarsi su poche cose importanti e fissare dei traguardi precisi.



Per esempio: dato che il problema dei docenti è il più importante, il ministero deve identificare degli interlocutori attendibili e costruire con loro le tappe del processo che introdurrà procedure adeguate di formazione, di selezione, di reclutamento, di formazione in servizio, di valutazione e di carriera. Nessuna di queste fasi può essere ignorata, o risolta separatamente dalle altre, e nessuna sarà accettata se non verrà costruita d’intesa con i destinatari. Il problema è quello degli interlocutori, dal momento che «la pratica delle associazioni degli insegnanti si caratterizza quasi sempre per un comportamento ibrido, organizzato intorno a due dimensioni: la difesa degli interessi corporativi e la difesa della scuola come servizio pubblico e funzione di utilità sociale» (Antonio Novoa, 1998). Un potere centrale, il Ministro e il suo staff, che non sappia agire per far prevalere la seconda dimensione sulla prima riuscirà forse a mettere a punto delle riforma dignitose (è successo anche in tempi recenti), ma non a farle decollare: e il sindacato, per parte sua, dovrebbe riflettere sulla legittimità di esulare da quella tutela dei diritti dei lavoratori che costituisce il suo scopo fondamentale, per discutere nel merito delle riforme. Le associazioni professionali sono molto deboli, anche se ce ne sono di pugnaci e innovative: si potrebbe incominciare da lì.



Al secondo posto, metterei la riforma della secondaria superiore. La prima proposta fu presentata quando io, ora ormai prossima alla pensione, avevo tre anni, e la storia e le storie di questa tormentata scuola (descritte in modo dettagliato e divertente in un libro di prossima uscita da Nicola D’Amico) costituiscono uno spaccato esemplare del cervellotico modo di funzionare di questo paese, tanto amato quanto scalcinato. I punti che vorrei fossero tenuti presenti sono tre: primo, la formazione successiva al ciclo di base va pensata come sistema, in base ai principi di efficacia e valorizzazione del merito, ma anche delle differenze. Secondo, è fondamentale tenere presente la domanda del mercato del lavoro, non per manifestare la propria subalternità agli imprenditori che vorrebbero privatizzarla (ma quando mai, se è più decotta dell’Alitalia…) ma perché è ragionevole che qualsiasi certificazione di competenze apprese, ad ogni livello, abbia una spendibilità decente sul mercato del lavoro (si prega di notare che ho accuratamente evitato la dizione “titolo di studio”). Terzo, le regioni dovrebbero farsi carico in modo serio e sistematico (non necessariamente tutte insieme e tutte con la stessa velocità, ma tutte con lo stesso obiettivo) di sviluppare una politica formativa che ne valorizzi le competenze senza riprodurre su scala locale i difetti del centralismo. In concreto, questo significa fissare alcuni paletti, nemmeno moltissimi (tipologie, durata, competenze fondamentali, requisiti degli insegnanti, raccordi fra i diversi percorsi e livelli) e poi impiantare un serio sistema di valutazione in grado di tenere sotto controllo senza soffocarla l’autonomia delle scuole, o meglio delle reti di scuole.

Al terzo posto, andrebbe affrontato in modo serio e non ideologico la questione del rapporto fra scuola statale e scuola non statale, nel quadro più generale dell’efficacia del servizio formativo, e non delle guerre di religione fra laici e cattolici. Se Lévy Strauss divideva gli studiosi della famiglia in sette di “orizzontali”, per cui contava solo la dimensione del rapporto di coppia, e di “verticali”, per cui contava solo il rapporto di filiazione, nel dibattito sul sistema integrato in Italia la divisione è fra “statocentrici”, per cui conta solo la formale appartenenza al sistema pubblico, senza alcun controllo di efficacia, efficienza ed equità, e persone di buon senso (ahi ahi, ho tradito le mie preferenze)  per cui non conta la targhetta sulla porta, ma la qualità del servizio e la sua rispondenza a criteri condivisi. E magari anche la possibilità di risparmiare.

Quarto… Ma in genere i desideri da esprimere, Aladino docet, sono solo tre, per cui fermiamoci qui: ce n’è d’avanzo. O meglio, resta lo spazio per due considerazioni di metodo:

I problemi – questi tre sono prioritari secondo il mio parere, ma possono essercene altri – vanno in ogni caso affrontati a partire dai dati di ricerca disponibili, o procurati allo scopo, e non a partire da assunti ideologici, così che sia possibile sviluppare una strategia di intervento che preveda delle tappe e dei controlli in itinere;

Le soluzioni vanno trovate in accordo tra maggioranza e opposizione, con l’impegno solenne da parte di entrambe a non mettere in discussione le decisioni prese al variare della maggioranza, o anche solo del governo.