Nel decreto sull’università approvato ieri è contenuta una norma riguardante la valutazione dei docenti. È utile fare alcune considerazioni in proposito. Per l’accesso al ruolo di docente è certamente fondamentale valutare la collocazione degli articoli scientifici su riviste internazionali e il grado di diffusione e citazione dei lavori prodotti, ma non bisogna dimenticare almeno altri due fattori. Innanzitutto la necessità di entrare nel merito dei lavori scientifici perché può capitare che studi molto validi, soprattutto di giovani ricercatori, siano collocati in riviste meno note. Secondariamente, occorre verificare il livello culturale generale del candidato perché il professore universitario italiano ha come compito imprescindibile anche l’insegnamento.
Più complesso è il problema della valutazione di professori già in ruolo e dei dipartimenti. Se è fondamentale, anche in questo caso, valutare la validità della produzione scientifica, anche a livello internazionale, occorre altresì tener conto della ricaduta della ricerca sul territorio, cioè del suo contributo ad affrontare problemi cruciali del mondo sociale, economico, scientifico e tecnologico. Ciò dipende dalla qualità della ricerca, ma anche dall’investimento di tempo e risorse per tradurla in progetti operativi. Non per niente nelle valutazioni periodiche dei full professor americani, si considera anche la loro capacità di organizzare la ricerca, di guidare gruppi di lavoro, di ottenere finanziamenti.
In Italia casi che fanno ben sperare sono quelli della Fondazione Politecnico, della Sda Bocconi, di Alma Mater di Bologna, delle Alte Scuole dell’Università Cattolica. Inoltre, non si può prescindere dalla valutazione della qualità della didattica, attuabile non solo con i questionari sottoposti agli studenti, ma anche attraverso indagini tese a verificare gli effetti della preparazione sull’attività professionale dopo l’università.
Le anagrafi dei laureati di molte università, i metodi per misurare i tempi di attesa del primo lavoro, la congruità dell’attività professionale con la preparazione, il livello di occupazione dei laureati – evidentemente al netto delle differenze per facoltà e territorio – suggeriscono criteri praticabili. Ciò diventa tanto più necessario se si pensa che la didattica di molte università italiane sia per la laurea triennale che per quella magistrale, può competere con sistemi conclamati come quello americano. Ma, mentre le università statunitensi trovano la loro eccellenza nella cura dei migliori, attraverso master e dottorati, l’università italiana vede qui la sua maggiore carenza in quanto manca di sistemi di incentivazione per i più meritevoli.
Dal complesso di queste considerazioni si deduce che non si può ridurre la valutazione all’utilizzo di indici quantitativi, peraltro molto discussi e discutibili. Per questo anche in Italia si è cominciato a utilizzare il giudizio di una commissione di esperti. La commissione valuta dapprima i titoli di docenti e dipartimenti attraverso indici quantitativi e rapporti appositamente predisposti e poi prende visione, attraverso colloqui e letture di documenti, del livello qualitativo generale; redige infine un giudizio articolato che mette in luce qualità e difetti della situazione suggerendo ipotesi di miglioramento.
Da ultimo, va considerata la scelta – l’unica che potrebbe assicurare una via d’uscita – di una vera competizione tra università, che costringerebbe, in uno scenario di abolizione del valore legale del titolo di studio, di finanziamenti non garantiti indiscriminatamente dallo stato e di autonomia reale, ad assicurarsi studenti e fondi di ricerca per il solo valore del loro operato (vedi proposte di legge del senatore Nicola Rossi).
È evidente che chi tollerasse una bassa qualità del suo ateneo, si avvierebbe a essere emarginato e forse a chiudere, mentre chiunque avrebbe interesse ad autovalutarsi in modo severo per evitare di diventare marginale.